Musica
Icone culturali: la storia dimenticata delle prime superstar di colore negli USA
Un sogno lungo 10 anni
Non a caso sono stati definiti roaring twenties, i ruggenti anni ’20.
100 anni fa, andava in scena in America – e in misura minore, anche in quell’Europa dove la Grande Guerra aveva brutalmente stroncato la distensione della Belle Époque – una rivoluzione culturale tra le più importanti del Novecento, probabilmente la più importante della prima metà del secolo scorso.
Dall’altra parte dell’Atlantico, nel quadrante geografico che ci interessa in questo articolo, mentre l’espansione industriale statunitense conosceva un periodo d’oro che sarebbe perdurato fino al big crash del 1929 – incastonato nell’immaginario collettivo nella data del 29 ottobre, il giovedì nero di Wall Street – si definivano mode, tendenze e stili di vita che sono stati immortalati in dischi, film e libri che sono ancora dei classici assoluti. Si pensi soltanto al Grande Gatsby, all’art deco, alle nuove tecnologie, a Mickey Mouse e al simbolo stesso di quest’epoca sognante e spensierata: la musica jazz, naturalmente.
Un decennio positivo nel nuovo come – in maniera meno diffusa e generalizzata data l’alba dei totalitarismi – nel vecchio continente. Gli anni ’20 sono noti in lingua spagnola come felices Años Veinte, in francese come années folles e in tedesco come goldene zwanziger, traduzione letterale della nomenclatura britannica Golden Twenties. Anche l’Europa, infatti, era nella scia di uno sviluppo economico che si sarebbe bruscamente chiuso non appena avessero cominciato a soffiare i venti di guerra. La gravità degli eventi storici susseguitisi successivamente ci porta a trascurare troppo questa gioiosa parentesi tra le due guerre mondiali, questo sogno durato 10 anni, un’epoca nella quale l’America iniziò a gettare le basi del suo star system, il quale – contrariamente a quanto si pensi – non si basa soltanto sull’eroe bianco maledetto ma fondamentalmente buono e giusto.
Prima di John Wayne, prima di Humphrey Bogart, prima di Cary Grant, prima di John Ford e prima di Robert Mitchum ci furono altre celebrità nello show-business. Storie di musica, storie di voci, storie afroamericane. Sono vicende meno note rispetto alle epopee delle superstar WASP appena elencate. Proprio per tal motivo, vale maggiormente la pena di raccontarle.
Il giorno in cui nacque il blues
Appuntamento con la storia
Era il giorno di San Valentino, nel 1920. A New York City, una cantante di colore di nome Mamie Smith, ventottenne all’epoca, aveva rimediato all’ultimo momento un appuntamento in uno studio di registrazione. Quando ci entrò, senza saperlo, fece la storia.
L’industria della musica dell’epoca, animata da studi e pregiudizi – com’era la norma in quel periodo, e non è che sia cambiato così tanto – dava per scontato che nessun afroamericano avrebbe mai comprato un giradischi. Erano costosi e si trattava di un dispositivo per bianchi. Non c’era dunque alcun motivo per investire su artisti di colore; i bianchi ascoltavano musica da bianchi, incisa da artisti caucasici. Eppure, in quegli stessi anni, c’era chi la pensava in un altro modo.
Intuizione vincente
Uno di questi era Perry Bradford, musicista per passione e imprenditore per professione, il quale parlando con Fred Hagar della Okeh Records, affermò in maniera profetica: “Nel nostro grande Paese ci sono 14 milioni di negri e anche loro si compreranno dei dischi se saranno incisi da qualcuno di loro.” Ovviamente, il termine nero o afroamericano non erano contemplati da nessun dizionario, all’epoca.
Durante una sessione di registrazione alla Okeh, un cantante bianco diede buca allo studio all’ultimo minuto e allora Bradford, convinto dal ragionamento appena riportato, propose ad Hagar di far cantare qualcosa a Smith. La cantante, originaria di Cincinnati, aveva lasciato la Città della Regina per esibirsi nei locali di Harlem, con un discreto successo. Di fatto, l’azzardo di Bradford fu un successo epocale. Fu presto deciso di approfittare delle doti di Mamie Smith per monetizzare su una forma di musica che stava spopolando nel Sud già da un ventennio, seppure non fosse stata ancora codificata a dovere.
Il 10 agosto di quello stesso anno Bradford, Smith e un gruppo di musicisti noti con il nome di Jazz Hounds incise una traccia denominata Crazy Blues. Difficilmente ne sarà stata consapevole al tempo ma la prima cantante di colore ad incidere in studio fu anche la prima a registrare un pezzo blues.
Una popolarità immediata
Musica in rosa
Nei dodici mesi seguenti alla sua uscita, Crazy Blues vendette oltre un milione di copie. Per l’epoca di cui stiamo parlando, fu un successone. All’istante si sviluppò un grandissimo interesse per la musica nera. Il blues classico fu la prima forma d’arte interamente afroamericana a conquistare gli States. Fondamentalmente, si trattò di una corrente artistica che coinvolgeva soltanto donne. Le prime interpreti furono infatti, oltre alla già citata Mamie Smith, artiste di colore come Gertrude Rainey, per tutti Ma Rainey; Bessie Smith; Ida Cox; Ethel Waters; Sara Martin; Edith Wilson; Victoria Spivey; Sippie Wallace e Alberta Hunter. Entro il 1925, ogni compagnia che operava nella musica, registrando canzoni, aveva almeno una cantante di colore nella propria scuderia. Già nel 1922 il Metronome scriveva: “Il Blues è qui per restare.”
Oggi ricordiamo Bessie Smith grazie ai toccanti omaggi che le hanno dedicato Nina Simone e Janis Joplin mentre Ma Rainey è stata celebrata in tempi abbastanza recenti da cinema e teatro. Tutte le altre sono ampiamente dimenticate a fronte di uomini che invece sono e resteranno per sempre nell’Olimpo della musica come James Brown, Marvin Gaye o Ray Charles. Si tende a dare a loro lo scettro di simboli del blues, non alle donne che li hanno preceduti.
Emancipazione femminile
La musica di Crazy Blues fu pubblicata da tale WC Handy, anch’egli musicista e imprenditore, autoproclamatosi padre del Blues, il quale trovandosi nel Mississippi, seduto ad una stazione nel 1903, ascoltò la musica più strana mai sentita provenire dalla chitarra di un uomo che suonava con un coltello. La descrizione data a questo misterioso suonatore nell’autobiografia di Handy è quella del bluesman dell’immaginario hollywoodiano: solitario, enigmatico e all’apparenza vagabondo che strimpella ballate sulla sfortuna e le difficoltà a nessuno all’infuori di sé stesso. Non fu però un solitario con il suo coltello a trasformare il blues in una macchina milionaria, bensì artiste sgargianti, formatesi nei locali dove il blues andava a braccetto con recitazione e cabaret per dar vita a spettacoli a tutto tondo.
Il fatto che platee di New York, Boston e Chicago potessero apprezzare il blues si deve a quel flusso migratorio che aveva spinto verso nord carovane di uomini e donne di colore in cerca di fama, fortuna e dignità. Tra queste c’era anche Ma Rainey, la quale se ne era andata dal Sud rurale e dal suo ancora fresco passato schiavista molto giovane, tenendo viva la musica come immortale contatto con le sue origini, esattamente come facevano le altre decine di migliaia e più di braccianti neri che inseguivano un futuro migliore nell’industrializzato Nord. Rainey cominciò a registrare in Paramount quando aveva 37 anni, erano però già 20 anni che si esibiva con quelle canzoni nei locali della Windy City, dopo aver lasciato quelle rosse colline della Georgia che Martin Luther King scolpirà in rilievo nella cultura americana durante il più celebre dei suoi discorsi.
Uno studio datato 1926 e recentemente rilanciato da BBC Culture, nell’approfondimento da cui provengono gran parte dei materiali utilizzati in questo articolo, afferma come “oltre il 75% delle canzoni blues sono scritte con un punto di vista indiscutibilmente femminile. Tra tutti gli artisti blues che si sono fatti un nome più o meno rilevante a livello nazionale, si fatica a trovare anche un solo uomo.”
Il linguaggio della vita
Dobbiamo calarci in quella che era la realtà quotidiana, all’epoca, per la popolazione afroamericana negli Stati Uniti. Il blues classico, quello degli anni ’20, rappresentò uno spazio nuovo ed esclusivo di auto-espressione e realizzazione personale. La voce permise alle donne di colore di mettere la voce davanti alla propria sessualità, di allontanarle – talvolta – da mariti violenti, come nel caso di Bessie Smith, e diede un forte impulso alla comunità queer. Molte di queste artiste finirono anche per provare un’attrazione fisica e sessuale tra loro: Bessie Smith avrebbe avuto relazioni con numerose sue coriste; Ma Rainey cantava, in Prove it on me, nel 1928: “I went out last night with a crowd of my friends/ It must’ve been women, ‘cause I don’t like no men” che si traduce pressapoco con “sono uscita ieri sera con amici, saranno state donne perché gli uomini non mi piacciono”; alcuni turnisti per Rainey e Bessie Smith sostengono che tra le due vi sia stato più della sola stima professionale.
Smith, come molte sue colleghe, era solita rivolgersi direttamente alle donne durante ogni concerto. La parte femminile del pubblico si riconosceva facilmente in quei testi e li approvava con cori come ” Say it, sister!” Siamo in un periodo nel quale è naturalmente prematuro parlare di femminismo, eppure si trattava proprio di questo.
Langston Hughes, poeta tra i più noti rappresentanti del movimento Harlem Renaissance scrisse che Bessie Smith riusciva a canalizzare “tristezza senza annegarla con le lacrime ma soffocandola in una risata. Una risata assurda ed incongrua, di una tristezza tanto profonda da non lasciare possibilità a nessun dio di lenirla.” L’attivista Angela Davis ha definito la cantante “la prima vera superstar nella cultura popolare afroamericana.” Esattamente come hanno fatto i rapper in tempi meno remoti, le artiste blues si posero come scintillanti avatar di liberazione, aspirazione e ribellione. Mamie Smith si esibiva in pelliccia, indossando diamanti, e una volta disse: “non ho badato a spese e non ho lesinato sul tempo necessario a frequentare i principali stilisti americani.” Ma Rainey adorava le piume di struzzo e saliva sul palco con una catena dorata girata tre volte attorno al collo. Bessie Smith, la più ricca e la più spendacciona nel gruppo delle sue coeve investì i proventi derivati dalle vendite record (780mila copie nei primi 6 mesi) del suo singolo di debutto, Downhearted Blues (1923), nell’acquisto di un vagone ferroviario Pullman con il quale attraversare l’America. In seguito divenne un’artista alcolizzata, edonistica, dalla generosità improvvisa e a volte esagerata nonché talvolta irrazionalmente violenta. Una vera e propria superstar, appunto.
Voci discordanti
Per queste artiste e i loro sempre più numerosi fan, la voce del blues rappresentava il linguaggio della vita nei ruggenti anni ’20. Non tutti gli afroamericani, però, concordavano sul fatto che la sovraesposizione della musica fosse un passo avanti per la loro cultura. Esisteva infatti un’altra corrente di pensiero, la quale raggruppava molti che si trovavano d’accordo con l’idea, espressa da studiosi – neri e bianchi, indistintamente – di cultura afroamericana, secondo cui la produzione commerciale di una musica dell’anima come il blues simbolizzasse la crisi spirituale e la corruzione dei neri provenienti dal profondo Sud. In sostanza, l’età moderna stava uccidendo la genuinità afroamericana. Per usare le parole della scrittrice Zora Neale Hurston: “l’identità negra stava svanendo a causa del contatto ravvicinato con la cultura bianca.”
Si aprì a questo punto una discussione tutta incentrata sulla differenza tra il blues vero, visto come una tradizione orale originaria del Sud rurale che stava sparendo e andava preservata, tutelata, protetta da chi invece voleva mercificarla. Per nobile che possa essere l’intenzione, ben sappiamo come nella musica tutti gli intenti più alti vengano immediatamente sacrificati sull’altare del vil danaro, non appena le major discografiche fiutino un affare. Chi si trovava d’accordo con il pensiero di Hurston cominciò a percorrere gli Stati del Sud, muovendosi nella direzione opposta rispetto a quella che, ad esempio, aveva portato Ma Rainey a Chicago, per catturare quelle “fotografie sonore delle canzoni dei negri, al loro stato naturale nel loro elemento nativo” come scrisse l’esperto di folklore John Lomax.
Questa ossessione per l’autenticità del sound blues delle origini finì per tarpare le ali alle primedonne della corrente musicale. Nel 1926 la Paramount promosse in pompa magna “un blues vero, old-fashioned, suonato da un bluesman vero, anch’egli old-fashioned” e il chitarrista e cantante Blind Lemon Jefferson, nell’intento di restituire all’ascoltatore un sound originale e che lo riconducesse a sonorità che la popolarità del blues si era lasciata alle spalle per confezionare un prodotto più orecchiabile e che vendesse meglio, finì per uscire dal seminato di quel suono di cui voleva farsi paladino. L’album di Jefferson diede il via a una corrente alternativa, creando il country blues. La sua musica piacque parecchio e le major discografiche si accorsero che gli uomini costavano molto meno delle signore. Il cambio di genere nel blues era dietro l’angolo e l’inizio della fine per le blueswomen pure.
https://www.youtube.com/watch?v=go6TiLIeVZA
Le voci femminili ridotte al silenzio
Un rapido declino
Le cantanti blues delle origini accusarono dunque una crisi nella seconda metà degli anni ’20, fino a trovarsi in difficoltà ancora maggiori quando la scure della Grande Depressione si abbatté sull’America. Le stime di vendita del 1933 dicevano che le vendite di dischi blues si attestavano intorno al 7% di quel che erano state nel corso dei roaring twenties. Gran parte dei teatri dove si esibivano le grandi voci erano stati convertiti in cinema – per cavalcare l’onda dell’ultima moda, nel periodo in cui Hollywood cominciava a gonfiare il petto – e gli ascoltatori del blues, ormai gentrificati ed urbanizzati, preferivano prestare orecchio ai ritmi più veloci dello swing, in quanto non avevano più bisogno di ripercorrere mentalmente i ponti con il Sud delle loro origini.
Thomas Dorsey, musicista nella band di Ma Rainey, restò colpito dalla velocità con cui quelle sonorità furono dimenticate e affermò: “È tutto collassato… Non so cosa sia accaduto al blues, tutti hanno smesso di seguirlo d’un tratto, è caduto all’improvviso.”
Di necessità virtù
Pochissime delle star della prima era del blues registravano ancora dischi negli anni ’30. Le voci femminili che si affermarono in quel decennio erano già più indirizzate al soul o all’ r&b; artiste come Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Memphis Minnie conobbero grande popolarità tra la depressione e l’epoca che fece degli USA l’ombelico del mondo: il secondo conflitto mondiale.
Nel 1931, Mamie Smith si ritirò ufficialmente dalle scene. Victoria Spivey aveva scelto il cinema già dal 1929. Ethel Waters si dedicò al musical – con grande successo, diventando per un periodo la più pagata a Broadway. Ma Rainey fu scaricata dalla Paramount già nel ’28 e tornò al Sud, per esibirsi in rassegne nostalgiche e che avevano poco a che spartire con i palchi che era solita calcare fino a poco tempo prima; anche la sua collana dorata, rubata, fu rimpiazzata con una di perle finte. A Bessie Smith forse andò ancora peggio, registrò fino al 1933, per un onorario pari ad un sesto di quanto richiedeva. Nel 1937 trovò la morte in un incidente stradale; la sua carriera però era di fatto già terminata da tempo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, un manipolo di collezionisti noto come Blues Mafia, impegnato a raccogliere le principali uscite discografiche di questo genere musicale, snobbò ampiamente la produzione delle primedonne del blues. Fu anche grazie a loro che gli uomini acquistarono molta più popolarità delle loro colleghe, nella storia di questa corrente musicale. Nomi come Charley Patton, Skip James, Son House e Robert Johnson furono considerati come i pionieri del genere, occupando quel posto che avrebbe dovuto essere riservato alle artiste che abbiamo fin qui elencato. Quando negli anni ’60 un’America profondamente diversa da quella di 40 anni prima riscoprì il genere, durante l’era nota come blues revival, ci furono briciole di celebrità per Victoria Spivey ed Edith Wilson, ancora vive e in attività. Si trattò però di briciole, appunto. Come ha scritto la studiosa Marybeth Hamilton nel suo libro Alla ricerca del blues: voci nere e visioni bianche: “Non è un caso se la gran parte delle prime interpreti blues considerate non vere siano donne. Per quelle persone, l’autenticità deve avere una voce maschile.”
Ogni revisionismo ha vincitori e vinti. Quello musicale non fa eccezione. La narrativa relativa alla nascita del blues ha cancellato con un colpo di spugna le esperienze e le voci femminili. Il blues è però donna, come lo sono le sue iniziatrici e le sue icone. La storia che ci raccontano è diversa, come sovente accade.
Chiunque abbia piacere di approfondire può rifarsi all’articolo originale, in lingua inglese.
Devi fare login per commentare
Accedi