Religione
“I fondamentalisti non sono l’Islam”: spiegatelo ai fondamentalisti, non a noi
Qualche giorno fa, in un quartiere popolare di Parigi, ci siamo trovati a osservare le giovani parigine, in minigonna e collant bucate (là si usa così), passeggiare tra le loro coetanee trincerate dietro a chador e palandrane lunghe fino ai piedi, con mariti e pargoli al seguito. Parigine anche loro, ma musulmane.
Probabilmente è difficile per un’adolescente europea cresciuta tra programmi di MTV e reti wireless vedere libertà, democrazia ed emancipazione in una gonna. Gli anni sessanta e la rivoluzione femminista sono lontani e oggi indossare una gonna corta può sembrare solo una scelta dettata dal gusto o dalla moda. Ma i vestiti sono molto più che semplici cenci per proteggerci da intemperie e sguardi altrui: sono simboli che raccontano lo spirito una società, spesso meglio di molte statistiche. Per questo, camminando per città come Parigi (dove i flussi migratori dai paesi musulmani sono più massicci e meno recenti che da noi) ci si accorge che la lunghezza di una gonna, ora come in passato, può rivelare il grado di libertà di cui godono le donne che la indossano. Dopotutto proprio la minigonna, nel Sessantotto, era il simbolo della libertà che milioni di ragazze in tutto il mondo occidentale rivendicavano: libertà da un controllo familiare e sociale opprimente e diritto di autodeterminarsi e decidere cosa fare nella vita e del proprio corpo (c’est à dire, se e quanti figli avere). Era la divisa delle militanti che protestavano per legittimare divorzio e aborto e per contestare l’ingiustizia della doppia morale.
Dopo quel decennio di lotte e ottenuta la parità tanto agognata, il binomio minigonna/libertà ha ormai perso ogni ragion d’essere. Negli ultimi anni è stato riesumato solo da alcune intellettuali che, lungi dal ritenere le giovani in minigonna paladine della libertà di genere, le accusano di mercificarsi e scoprire le gambe per farsi strada nel mondo. La minigonna, non solo non esprimere libertà, ma è il simbolo dell’assoggettamento delle donne allo stereotipo maschilista che le vuole pin up loliteggianti anche a ottant’anni: nonostante credano di scegliere liberamente, in realtà sono condizionate da media e pubblicità. Moderne monache di Monza che vogliono somigliare alle Barbie con cui giocavano da bambine. Si arriva persino a paragonarle alle donne musulmane, che anche quando scelgono liberamente di indossare lo chador, lo fanno perché succubi del potere che famiglia e società esercitano su di loro.
Minigonna come chador? Sono veramente la stessa cosa, l’espressione di due culture che, se pur in modo diverso, condizionano le donne (e quindi i cittadini)?
Domanda questa, che porta al tema centrale nei dibattiti post 11 settembre: le democrazie occidentali e i sistemi di governo dei Paesi arabi e islamici hanno pari dignità politica? Occidente uber alles, oppure, in nome di una superficiale interpretazione del relativismo, si può sostenere che ogni cultura abbia una sua ragion d’esser e non sia possibile fare un confronto, ponendone una sopra l’altra? Sarà anche vero: i mass media influenzano notevolmente le donne occidentali, imponendo un certo stereotipo femminile; in ogni caso oggi questa diatriba appare noiosa e sterile. Perché nonostante il fascino esercitato dalle soubrette, le giovinette sanno benissimo che ci sono mille altri modelli ai quali ispirarsi, in ogni ambito. In Occidente ogni donna può decidere il tipo di vita che più le corrisponde. Magari non avrà fortuna o sufficiente talento e non otterrà soldi, successo o felicità. Ma ha la possibilità di autodeterminarsi, scegliendo cosa essere e come apparire.
Il punto è che se da noi la minigonna ha perso il suo originario significato, proprio perché le donne sono libere e non hanno più bisogno di simboli per ricordarlo e rivendicarlo, altrove le cose vanno diversamente. La gonna corta è infatti una scelta di libertà che, se pur banale, le donne musulmane non hanno: loro non possono seguire il modello valletta o scoprire le gambe per intercettare i favori maschili. Se lo fanno, sono viste e trattate come prostitute, nei casi migliori. Ecco la differenza tra la minigonna e lo chador: le donne occidentali, se vogliono, la minigonna possono lasciarla nell’armadio e indossare un velo sul capo. Le donne mussulmane possono togliere lo chador e andare in giro in pantaloncini?
Questo è il potere che l’Occidente offre ai propri cittadini: il potere di scegliere, di autodeterminarsi. Anche di modificare il sistema cambiandone le regole, se ritenute inadatte. Ricordiamo, a chi li critica per i loro numerosi difetti, che i regimi liberal-democratici sono perfettibili e quindi in continua evoluzione, a differenza di quelli basati sulla dottrina religiosa, volti alla conservazione delle tradizioni. Il loro unico dogma è la libertà kantianamente intesa; e forse proprio in questo fondamento è individuabile il loro tallone d’Achille: rispettare le libertà individuali implica lascare spazio non solo ai contestatori, ma anche a chi li rifiuta totalmente. La grandezza dell’Occidente, e anche il suo limite, è proprio in questa capacità di accoglienza, in questa struttura che tollera e ingloba le diversità senza annullarle.
La questione centrale è quali siano i limiti della tolleranza e se l’intolleranza debba essere tollerata. Popper per rispondere cita il caso della Germania nazista: “se noi concediamo all’intolleranza il diritto di essere tollerata, allora noi distruggiamo la tolleranza, e lo stato di diritto. Questo è stata la sorte della Repubblica di Weimar”. E da Popper viene anche la risposta ai relativisti: pensare che tutte le tesi siano più o meno valide, porta a ritenere che tutto sia accettabile; se tutto è vero, allora niente è vero e la verità perde ogni significato: una tesi pericolosa perché porta all’anarchia e al dominio della violenza. L’intelligenza è distinguere, analizzare, trovare similitudini ma soprattutto differenze. Affermare che sia tutto uguale, come fa chi bolla come razzista chiunque si rifiuti di mettere sullo stesso piano fondamentalismo e democrazia, è tipico di una certa sinistra benpensante che per non sbilanciarsi preferisce nascondersi dietro al politicamente corretto.
Del resto sembra inutile spiegare la differenza tra un condizionamento sociale che suggerisce modelli cui somigliare e un’imposizione coercitiva di uno stile di vita. Le occidentali possono scegliere di essere altro rispetto ai canoni dominanti. Le donne musulmane possono rifiutarsi di ubbidire a genitori e fratelli, possono ribellarsi a mariti che limitano loro ogni libertà, dal vestirsi come vogliono a uscire da sole? Per questo, se la minigonna è l’emblema dell’emancipazione, lo chador è simbolo di una presunta cultura ipocrita e fondamentalista, maschilista e oscurantista, che vede le donne esclusivamente come prede sessuali e quindi cerca di plagiarle e assoggettarle, censurarle e mortificarle fino all’annullamento, in modo da non indurre in tentazione uomini repressi che, come bestie in calore, non sanno controllare i propri impulsi primordiali e violenti. Non raccontiamoci che burqa e chador sono una libera scelta di donne con un’altra concezione del mondo. Lo sarà veramente quando vedremo le donne musulmane in minigonna. Quando potranno realmente scegliere. Oggi sicuramente non è così.
Per non far parlare solo le gonne, riportiamo i risultati di un sondaggio realizzato nel 2013 dalla Thomson Reuters Foundation, basato su interviste fatte a 336 esperti di genere nei 22 stati della Lega Araba. Le domande miravano a valutare la condizione femminile considerando aspetti come diritto a voto, studio, aborto e divorzio, riconoscimento dello stupro come reato, cancellazione del matrimonio riparatore, l’integrazione nella società, presenza di comportamenti violenti. I risultati sono sconfortanti. Per non dilungarci troppo rimandiamo direttamente al reportage sul sito della fondazione.
Basti dire che il Paese dove le donne arabe stanno notevolmente meglio rispetto agli altri (tra cui Algeria, Marocco, Egitto, Giordania, Libia, Somalia, Iraq) è la Repubblica Federale Islamica delle Comore: la metà dei detenuti è in carcere per reati sessuali. In quasi tutti gli altri Paesi arabi la violenza sessuale non è nemmeno un reato.
A proposito di chador e libertà, concludiamo ricordando l’intervista all’Ayatollah Khomeyni che Oriana Fallaci fece nel 1979. Un pezzo di giornalismo e di storia straordinari, che termina con quell’epico gesto dove lei si trappa “lo stupido cencio da Medioevo” davanti all’Iman, violando le leggi islamiche e rischiando la vita (fu proprio Khomeini, il quale vinse le elezioni in Iran in quello stesso anno, a imporre per legge alle donne la copertura costante del volto, insieme ad altri decreti moralizzatori come abolizione di divorzio e aborto e pena di morte per adulterio e bestemmia).
“(…)
La prego, Imam: devo chiederle ancora molte cose. Di questo “chador” a esempio, che mi hanno messo addosso per venire da lei e che lei impone alle donne, mi dica: perché le costringe a nascondersi come fagotti sotto un indumento scomodo e assurdo con cui non si può lavorare né muoversi? Eppure anche qui le donne hanno dimostrato d’essere uguali agli uomini. Come gli uomini si sono battute, sono state imprigionate, torturate, come gli uomini hanno fatto la Rivoluzione…
Le donne che hanno fatto la Rivoluzione erano e sono donne con la veste islamica, non donne eleganti e truccate come lei che se ne vanno in giro tutte scoperte trascinandosi dietro un codazzo di uomini. Le civette che si truccano ed escono per strada mostrando il collo, i capelli, le forme, non hanno combattuto lo Scià. Non hanno mai fatto nulla di buono quelle. Non sanno mai rendersi utili: né socialmente, né politicamente, né professionalmente. E questo perché, scoprendosi, distraggono gli uomini e li turbano. Poi distraggono e turbano anche le altre donne.
Non è vero, Imam. E comunque non mi riferisco soltanto a un indumento ma a ciò che esso rappresenta: cioè la segregazione in cui le donne sono state rigettate dopo la Rivoluzione. Il fatto stesso che non possano studiare all’università con gli uomini, ad esempio, né lavorare con gli uomini, né fare il bagno in mare o in piscina con gli uomini. Devono tuffarsi a parte con il “chador”. A proposito, come si fa a nuotare con il “chador”?
Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non vi riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene.
Molto gentile. E, visto che mi dice così, mi tolgo subito questo stupido cencio da medioevo. Ecco fatto. Però mi dica: una donna che come me ha sempre vissuto tra gli uomini mostrando il collo e i capelli e gli orecchi, che è stata alla guerra e ha dormito al fronte con i soldati, è secondo lei una donna immorale, una vecchiaccia poco perbene?
Questo lo sa la sua coscienza. Io non giudico i casi personali, non posso sapere se la sua vita è morale o immorale, se si è comportata bene o no coi soldati alla guerra. Però so che nella mia lunga vita ho sempre avuto conferma di quello che ho detto. Se non esistesse questo indumento, le donne non potrebbero lavorare in modo utile e sano. E nemmeno gli uomini. Le nostre leggi, sono valide leggi.
(…)”
Nota per i lettori.
1) A chiunque abbia la tentazione di ripetere la cantilena che l’Islam non è solo fondamentalismo ma esiste anche un Islam moderato: non sarebbe meglio convincere i milioni di fondamentalisti, anziché noi, che l’islam può essere anche moderato?
2) Ovviamente Paesi arabi e Paesi islamici non sono la stessa cosa, per necessità di sintesi non abbiamo fatto le dovute distinzioni accorpando i due gruppi. Tanto i diritti politici sono pochi o nulli sia in un caso che nell’altro.
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