New York

«Ho vinto la Green Card: al diavolo l’italia, America arrivo»

12 Novembre 2014

«Eh, ma tu hai più c..o che anima!». Questa, più o meno, con leggerissime varianti  a seconda del livello di confidenza che ho con l’interlocutore, è la risposta che mi sento dare ogni qual volta rivelo di essere tra i pochi, pochissimi privilegiati al mondo ad aver vinto la Green Card, il permesso permanente di soggiorno e lavoro negli Stati Uniti d’America. Ogni anno ne vengono concesse 50mila in tutto, a fronte di milioni di richieste che piovono da ogni angolo del pianeta. C’è effettivamente di che sentirsi miracolati.

Sì, va bene, non lo nego: non è la prima volta che la mia buona stella si mostra particolarmente sfavillante. Per sapere a cosa mi riferisco, basta digitare il mio nome su Youtube. Detto questo, però, è anche vero che uno la fortuna deve andarsela a cercare. Altrimenti si finisce come il devoto di San Gennaro della famosa barzelletta, quello che ogni giorno scongiurava il Patrono di farlo vincere al Totocalcio, finché il santo, esasperato da tanta insistenza, gli risponde che, se questo avesse continuato a non giocare mai la schedina, il fargli la grazia sarebbe stato alquanto complicato anche per lui. E il paragone, per quanto ironico, è tutt’altro che azzardato. Specie se si considera che, delle centinaia di migliaia di candidati (contando solo gli italiani) che ogni anno tentano di accaparrarsi una delle 50mila Green Card messe in palio (in tutto il mondo) dal Dipartimento di Stato Americano, la stragrande maggioranza si ritira davanti alla richiesta delle spese amministrative (circa 400 euro in totale, ammesso che l’intera trafila vada effettivamente a buon fine), ignora le richieste di invio dei documenti personali da parte dell’ufficio centrale per l’immigrazione, pasticcia con la compilazione dei form – la burocrazia statunitense, se confrontata a quella italiana, è una passeggiata di salute, ma per chi sbaglia o gioca a fare il furbo non c’è perdono – o ancora, ma più raramente, non ha i requisiti minimi richiesti dal bando (diploma di scuola superiore e fedina penale immacolata). Per tutto il resto, sì, è proprio una lotteria come tutte le altre: si gioca, e ci si aspetta il peggio sperando nel meglio.

La mia avventura, se così la vogliamo chiamare, è cominciata nell’autunno del 2012. La mia ragazza di allora, che con me condivideva la passione per un po’ qualunque cosa sia griffato a Stelle e Strisce, mi aveva convinto a tentare la sorte. Non che avesse dovuto sforzarsi molto, beninteso: l’idea di vivere e lavorare negli States è sempre stata molto più che un sogno nel cassetto. La verità, però, è che fino ad allora avevo creduto che la famosa DV-Lottery con la quale la Green Card viene assegnata fosse solo una specie di semi-truffa a mezzo banner, un po’ come le mail che garantiscono straordinarie evoluzioni nel calibro e nella potenza di fuoco della propria, diciamo, artiglieria personale, qualora si usi la tal pomata o la tale pilloletta. E non avevo tutti i torti: escluso il sito ufficiale del Dipartimento di Stato americano, non esiste in effetti altra via per ottenere l’agognata carta verde. Tutto il resto in cui si incappa navigando su Internet è poco più che spam, o al massimo un costosissimo supporto tecnico che si incarica di svolgere dietro lauto compenso la breve trafila burocratica che ciascun candidato può tranquillamente sbrigare da solo, e pressoché gratis.

Nel frattempo, dalla compilazione del form on-line era trascorso circa un anno. La mia ragazza se n’era andata, la mia candidatura invece, era rimasta. Anzi, era andata avanti. La ex, invece, non era stata così fortunata. Ma il destino, si sa, ha un senso dell’umorismo tutto suo. Con una laconica mail, il Dipartimento di Stato mi aveva fatto sapere che il mio nome figurava tra i 150mila “scremati” dal primo sorteggio e che, se fossi stato ancora interessato a proseguire, era necessario che spedissi presso un ufficio del Kentucky un dettagliato dossier contenente il mio stato di famiglia, curriculum scolastico e professionale, casellario giudiziale (la cosiddetta “fedina penale”, NdR), carichi pendenti, varie ed eventuali.

Pronti

Pur essendo tutt’altro che superstizioso, avevo chiuso l’enorme busta allegando a tutta la documentazione richiesta una dose consistente di preghiere, scongiuri, formule apotropaiche, interiezioni, occhi, malocchi, prezzemoli e finocchi. Perché non si sa mai. Pare comunque che lo stratagemma abbia sortito l’effetto desiderato: dopo mesi di silenzio assoluto,  infatti a maggio di quest’anno ho ricevuto (sempre via mail) la convocazione per il mese di luglio presso il Consolato Generale statunitense di Napoli, per la visita medica e il colloquio con il delegato consolare. Chiunque ci sia già passato, vi dirà che a quel punto la Green Card è cosa fatta. Ma posso assicurare che le settimane che precedono il colloquio somigliano molto da vicino a quelle che precedono gli esami di maturità. Se non altro perché si suda altrettanto.

Gli addetti del consolato sono stati cortesi e professionali oltre ogni umano livello di comprensione. Per vedersi bocciare la domanda a quel punto della trafila occorre proprio essersi macchiati di orribili nefandezze nell’arco di tempo intercorso dalla presentazione del primo form, o aver lasciato altrettanto orribili lacune o imprecisioni precedentemente sfuggite agli esaminatori. Ed è per questo che, quasi sempre, il colloquio si conclude con l’addetto che ritira il passaporto del candidato e lo restituisce via corriere espresso nel giro di qualche giorno, con su appiccicato un bel visto di ingresso temporaneo negli USA. A questo punto è necessario fare il proprio primo ingresso negli Stati Uniti entro sei mesi dalla data di emissione del suddetto visto, dopo di che la Green Card vera e propria viene recapitata nell’arco di un me setto all’indirizzo statunitense di riferimento che il candidato deve obbligatoriamente aver indicato nel modulo della domanda.

Ivi giunti, arriva il momento di partire. Già. Perché nel frattempo, con l’aria che tira nella terra natìa, arriva anche il momento che persino fare l’addetto alle friggitrici in un KFC nel Queens appare più allettante rispetto al rimbalzare continuamente tra una redazione e l’altra, con le tue prospettive per un futuro stabile che vanno progressivamente a farsi friggere più di qualsiasi aletta di pollo in salsa barbecue. Perché l’America ti chiama, ti solletica e ti seduce già dal grande schermo, figuriamoci quando hai in tasca una Green Card col tuo nome, il tuo cognome e il tuo bel (si fa per dire) faccione stampigliato sopra in filigrana. L’America sventola sotto il naso opportunità potenzialmente sconfinate, a fronte della quotidiana eutanasia sociale che le prime pagine di tutti i giornali asseriscono sarà il prossimo futuro del tuo Paese. Proprio come cent’anni fa, insomma, quando al posto del trolley c’era una valigia di cartone e invece dell’iPhone si stringeva una medaglietta di San Francesco. Arriva, in parole povere, il momento in cui si fa più fatica a trovare motivi per restare, piuttosto che per salutare tutti e andarsene.

Beninteso: sono fiero di essere italiano, e lo sarò sempre. Andrò sempre orgoglioso della mia storia e dei miei illustri compatrioti, da Dante Alighieri a Luciano Pavarotti, passando per Garibaldi, Cavour, il comandante Guillet e la buonanima di mio nonno partigiano nella Matteotti. Ma, ciò premesso, mi sento un po’ come se negli ultimi trent’anni il mio Paese avesse fatto di tutto per farmi capire che il mio sentimento non era affatto ricambiato, e che anzi qui sono più una sorta di scocciatura più o meno tollerabile. E allora, Italia, arrivederci a tempi migliori.

Cosa farò, non lo so: ho sempre voluto fare il giornalista da quando avevo cinque anni e i miei amici sognavano di fare il pompiere, l’astronauta o la ballerina di fila, ma c’è anche da dire che il grosso dei miei risparmi l’ho messo da parte facendo il cameriere, e che se adesso nessuno dei miei amici è astronauta, pompiere o ballerina di fila, chi ha un lavoro serio se lo tiene ben stretto. Ad essere onesti, mi andrebbe benone anche un posto da acchiappafantasmi. Proprio come Winston, anche io se c’è lo stipendio fisso sono disposto a credere agli UFO, alle proiezioni astrali, alla telepatia, a credere alla ESP, alla chiaroveggenza, alla fotografia spiritica, alla telecinesi, ai medium scriventi e non scriventi, al mostro di Loch Ness, e alla teoria sull’Atlantide, mia cara Janine. Perché l’ultimo scampolo di idealismo è volato via l’ennesima volta che mi hanno proposto di scrivere qualcosa gratis “perché tanto ti fai conoscere e fai girare il nome”. In più, con il mio inglese fluente forgiato dagli impeccabili programmi didattici della scuola pubblica italiana, dalle clip di Brazzers e dai dialoghi sottotitolati delle serie tv HBO in lingua originale, è il caso che non sia troppo “choosy” ma che invece “fly down”.

Non so nemmeno dove andrò, di preciso: non nego che mi piacerebbe provare a dare almeno un morso alla Grande Mela, ma, insomma, questa Land of Opportunity è così estesa che cominciare subito a mettere limiti alla Divina Provvidenza sembra un po’ una roba da maleducati.

In più, c’è sempre il mio proverbiale c… fortuna. Chissà che non ci metta del suo anche stavolta.

Va beh, torno a fare la valigia. Che poi tanto finisce che uno si dimentica sempre di metterci lo spazzolino da denti e i calzini.

 

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