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Gli editori tedeschi chiedono “scusa” a Google: «Senza di te non viviamo»

15 Novembre 2014

Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto. Questo lo insegna Sergio Leone. Quando un uomo con un margine annuale da 700 milioni di dollari ne incontra uno con un margine di 14 miliardi, prova a scrivergli una mail. Lo prova la lettera aperta inviata nello scorso giugno da Mathias Döpfner, CEO di Axel Springer, al presidente di Google Eric Schmidt e ai vertici politici dell’Unione Europea. In quegli stessi giorni di un anno prima, peraltro, tutti gli editori europei si erano rivolti alle istituzioni europee con lo stesso avversario e gli stessi obiettivi.

Ma la distanza tra il fatturato del più grande gruppo editoriale tedesco ed europeo, e quello del colosso web americano, è un rapporto molto più pericoloso di quello che intercorre tra una pistola e un fucile. E anche con una mail traboccante di buoni argomenti, la storia può finire male: questo lo insegna il capovolgimento seguito in questi giorni dagli editori tedeschi, Axel Springer in testa, nella disfida al gigante americano della ricerca online. Uno scontro in cui gli imprenditori d’oltralpe non si erano fatti scrupolo di coinvolgere direttamente le istituzioni politiche nazionali e quelle europee.

Quando Döpfner ha preso carta e penna (digitali) stava ancora misurando gli effetti di una legge promulgata dallo stato tedesco a protezione degli editori nei primi mesi del 2013, ed entrata in vigore nell’agosto dello stesso anno. Il provvedimento intende proteggere il diritto di proprietà intellettuale dei giornali che vengono indicizzati da Google, e obbliga il motore di ricerca a retrocedere un compenso economico alle testate per gli articoli citati: sotto accusa sono gli estratti («snippet») che vengono pubblicati nel servizio di Google News. L’intervento normativo è seguito alla pressione di un folto gruppo di editori  (i duecento membri del consorzio VG Media coordinato proprio da Axel Springer).

No euro, no party: la risposta tedesca alle obiezioni di Google è stata chiara. Non importa a nessuno del contributo divulgativo presso il pubblico digitale messo in opera gratis dal motore di ricerca. Chi linka paga, e i meriti (poi) sono suoi. Potrà godere della gratitudine popolare per il suo contributo alla cultura della Rete; ma non può farlo a spese degli editori, e della loro fatica nella creazione dei contenuti.

Tutto chiaro? No, non per Google. Mountain View non ci sta, e organizza la contromossa: gli editori che ci tengono a comparire sulle pagine di Google News con link e snippet sono invitati a recedere in modo esplicito dalle restrizioni imposte per legge. Per gli altri si profila un esilio forzato dai listati di risposte del motore di ricerca. È il 21 giugno 2013 quando la sfida viene lanciata; da quel momento per gli editori tedeschi le cose cominciano a mettersi male.

Quando Döpfner decide di portare la polemica in piazza con la sua lettera aperta, si è già accorto che la sua penna è spuntata, come la lancia che avrebbe dovuto brandire nella disfida a Google. Il 60% dei ricavi di Axel Springer proviene dal mercato digitale, un ambiente in cui il rivale controlla in Germania il 90% di tutte le operazioni di ricerca, il 70% nel mondo. Il concorrente più temibile per Google è il cinese Baidu, fermo al 16%. Prima di litigare, Mountain View è un interlocutore obbligatorio con cui bisogna scendere a patti, pena il rischio di vedersi tagliare i rifornimenti necessari alla sopravvivenza. Il primo guaio per gli editori è scoprire che Google non è solo l’avversario, ma anche l’arbitro della contesa. No Google, no party.

dopfner

Ma il motore di ricerca non ha soltanto esteso la sua egemonia sull’intero mercato dei media; ha anche aggirato il controllo normativo sui rapporti di concorrenza tra le imprese. In Germania Axel Springer accumula il 9% della raccolta pubblicitaria su carta tramite le testate Bild e Die Welt; di conseguenza, la legge tedesca ha impedito l’annessione del canale televisivo Pro sieben Sat. 1, al fine di evitare una concentrazione di potere commerciale e la rottura degli equilibri della concorrenza. Google però intercetta una quota superiore al 60% degli investimenti in comunicazione promozionale online, senza che nessuno pensi di imporre un argine alla sua espansione. Infine, il metodo stesso di erogazione dei messaggi pubblicitari sancisce uno scarto epocale tra editori e motore di ricerca, non solo dal punto di vista delle potenzialità economiche, ma da quello della concezione del mondo sottesa. Google infatti governa la presentazione dei contenuti commerciali ad un livello di personalizzazione individuale, pubblicando i contenuti più efficaci per il profilo di persuasione di ogni singolo interlocutore.

Dopo aver convertito l’avversario in arbitro, con quest’ultimo tocco Döpfner trasforma l’arbitro in tiranno. Per di più, la dominazione di Google è la più subdola della storia: il suo potere non si fonda né sulla paura, né sulla distribuzione generalista di panem et circenses. Il motore ricusa la formula «brezel per tutti», perché consegna a ogni individuo lo spettacolo che preferisce insieme al tipo di pane prediletto, e si impegna a rassicurarlo sul fatto che lo show non è finzione, ma il mondo in carne ed ossa. Il tuo brezel è ben più del mulino che vorresti, è la realtà al gran completo.

Il tiranno è un illusionista che non solo impone il suo arbitrio contro la normativa sulla libera concorrenza, ma che applica l’arbitrio dei desideri personali come metodo universale di percezione della realtà. Sarebbe un ottimo contrappasso se il dittatore alla fine si rivelasse un imperatore illuminato, un Marco Aurelio capace di contenere la propria brama di potere e in grado di dominare la seduzione dei vizi, aprendo un varco di mecenatismo agli editori tradizionali per coltivare la coscienza civile dei lettori. Döpfner si concede il lusso retorico di credere a questa possibilità, rivolgendo la sua lettera aperta direttamente al presidente di Google, Eric Schmidt. Ma il vero interlocutore del suo appello continuano ad essere le istituzioni politiche, questa volta non più solo tedesche, ma – ad un livello più alto – dell’Unione Europea. Se il minimo che si possa dire della sua diagnosi è che corrisponde alla drammaticità del reale, la prognosi continua ad essere ostaggio di una lacuna di fondo. Non si può vincere la prova di forza contro il tiranno attraverso un appello alla legislazione e alle (inadeguate) risorse politiche, ma solo attraverso una revisione integrale del ruolo degli editori, dei loro strumenti, e grazie ad una nuova comprensione della cultura, dell’informazione e dell’opinione pubblica in generale. La via politica decapita in via definitiva la penna già spuntata di Döpfner.

È giusto lamentare l’incapacità di comprendere la nuova realtà digitale e il suo mercato da parte delle istituzioni governative, soprattutto di quelle europee. Però contare su di loro per uscire vincitori dalla sfida contro Google (o almeno per sopravviverle), si delinea come un doppio malinteso: un’ingenuità sui tempi di reazione degli organismi politici e un errore di visione sulla funzione sostenibile dalle strutture amministrative nazionali e dai cartelli degli editori. L’esito drammatico è inevitabile: il 23 ottobre scorso tutti i membri del consorzio VG Media ritrattano la loro posizione e rinunciano ai privilegi economici che la legge tedesca, da loro voluta, riservava loro. Il 5 novembre tocca ad Axel Springer chiarire a Reuters che la decisione è maturata dopo la constatazione che la rimozione dello snippet è costata alla casa editrice una contrazione del traffico sui propri contenuti intorno al 40%, con un tracollo fino all’80% per gli accessi da Google News.

Senza Google non si può vivere, ma con Google si muore. Eppure sono gli editori in prima persona che collaborano alla prosperità del motore di ricerca. VG Media continua la battaglia legale contro Mountain View per ottenere una retrocessione dell’11% del fatturato lordo guadagnato sulle pagine che linkano le notizie pubblicate sulle testate tedesche; eppure i membri del consorzio investono (o meglio, come dice Döpfner, sono costretti a investire) quote rilevanti del loro budget marketing nell’acquisto di inserzioni pubblicitarie sulle pagine del motore di ricerca. Senza questo impegno il traffico diminuisce, e con lui si prosciugano le risorse finanziarie. Ma il risultato è che gli editori sfilano tra i principali sostenitori della fortuna di Google e del modello di business che combattono nelle aule giudiziarie.

L’ambiguità è insanabile e non può essere composta né nei dibattiti dei parlamenti nazionali, né di fronte ad un tribunale. La morale della favola era facile da prevedere anche prima che qualcuno la raccontasse (e addirittura decidesse di viverla nel mondo reale): il silenzio di Google è molto più temibile della voce grossa che possono fare gli avvocati davanti ad un giudice, di qualunque ordine e grado; e il tentativo di fermare una rivoluzione già persa con un testo normativo nazionale si rivela una fatica inutile, nella migliore delle ipotesi, mentre nell’ipotesi peggiore diventa persino dannoso. Le rivoluzioni divampano per sospendere i sistemi di diritto vigenti, e questa è la ragione per cui la manovra legislativa non ha funzionato e non poteva funzionare. D’altra parte quello che accade non è nemmeno il precipizio in una condizione selvaggia senza alcuna regola: lo stato di eccezione è una circostanza complessa e ambigua, che qui si manifesta come l’imposizione di un potere sovrano da parte di Google e come quel rapporto di esclusione-inclusione che si è stabilito di conseguenza nei confronti degli editori.

La penna di Döpfner non è solo spuntata nella dignità della propria indipendenza di avversario, e decapitata della sua protezione politica; gli è stata letteralmente strappata di mano con la ristrutturazione delle dimensioni e dei contenuti del sapere sociale emersa dalle trasformazioni culturali imposte con i new media negli ultimi quindici anni (che, sia detto tra noi, non sono così pochi da autorizzare l’incomprensione degli eventi, e nemmeno la persistenza dell’etichetta new per i media). Fino alla fine del millennio scorso l’attività di pubblicazione e di distribuzione esigeva un investimento economico rilevante: questa struttura sociale accreditava gli editori e le istituzioni accademiche di un potere che veniva esercitato stabilendo l’agenda degli interessi del pubblico nella sua interezza. Il catalogo dei titoli bibliografici, delle notizie apparse su giornali di carta o in formato radiofonico e televisivo, il cartellone dei teatri e dei cinema, il palinsesto televisivo, i programmi universitari e scolastici, esaurivano l’orizzonte di quello che poteva figurare entro l’orizzonte del sapere sociale; tutto il resto semplicemente non aveva diritto di cittadinanza.

Google è uno dei protagonisti della rivoluzione che ha smantellato questa forma di autorità culturale, con le conseguenze politiche ed economiche che abbiamo sotto gli occhi. La possibilità di creare e di pubblicare è stata concessa a tutti, con l’effetto di dilatare migliaia di volte l’estensione del sapere sociale. Un’indagine del 2011 pubblicata dall’Economist mostra che il 90% dell’informazione disponibile nel mondo è stata generata soltanto nei cinque anni precedenti, dal 2005 al 2010, con un passaggio da 130 a 1.227 exabyte di dati (un exabyte è un numero enorme, formato da 1 seguito da 18 zeri). Secondo la stima elaborata da Hilbert e López per Science nel 2007 nel mondo erano stoccati 300 exabyte di dati, e solo il 7% era archiviato in formato non digitale; nel 2000 il rapporto tra formato elettronico e analogico era di 1 a 2. Questo diluvio di informazioni è stato scatenato dalla certezza, consegnata a ciascuno di noi, di poter sempre trovare un pubblico cui rivolgerci, e di poter partecipare alla scena di un dibattito che certifichi la razionalità dei nostri interessi, qualunque essi siano, insieme all’obiettività delle nostre affermazioni; la stessa che prima era garantita dagli editori solo al popolo eletto degli accademici e degli autori «laureati». Gli attori che legittimano queste nuove certezze sono gli stessi che ratificano la nostra convinzione di avere diritto ad una risposta per qualunque domanda ci passi per la mente, anche (anzi, soprattutto) la più stravagante: i motori di ricerca e i social media. Google e Facebook hanno traghettato il pubblico Occidentale dal sapere sociale composto di pochi argomenti imposti a tutti, a quello degli infiniti temi in cui ognuno abita un mondo oggettivo, condiviso con una nicchia più o meno specialistica, modellato attorno alla cultura dei propri interessi. I motori di ricerca e i social media si arrogano un ruolo di prova ontologica per i contenuti stillati nell’oceano dell’informazione. Sono loro che mettono in contatto l’informazione rilevante con il soggetto che la cerca; se non si compare sulle loro pagine, si cessa di esistere. Chi vince piglia tutto.

Gli editori non hanno solo perso l’esclusiva: insieme a questa si è dissolto il focus della loro missione. Sebbene fondata su un’ottima anamnesi del problema, la concezione di Döpfner fallisce la comprensione del contesto e la scelta di una via d’uscita. Il ricorso alla segregazione politica e alle barriere legali vorrebbe restaurare un potere culturale che non può più esistere; il terrore di abdicare, e l’ossessione di conservarlo, hanno impedito a ogni forma di editoria di seguire la strada dell’innovazione negli ultimi dieci anni, lasciando che questo compito venisse assunto dalle software house. Così Apple si è appropriata del mercato della musica con iTunes, Google News e le app che erogano servizi di curation hanno divorato quello dell’informazione. Döpfner e gli alleati di Axel Springer hanno ragione a esigere una regolamentazione dei media digitali; ma nessun testo normativo può essere redatto senza una comprensione adeguata della realtà che stiamo vivendo, e del potere sovrano che le istituzioni politiche, ma non meno quelle culturali, hanno consegnato nelle mani di Google. Anche Döpfner deve impegnarsi nel compito che pretende dal governo europeo; posizioni di retroguardia non sono ammesse, pena l’estensione all’intero continente dell’umiliazione che Mountain View ha inflitto agli editori tedeschi.

 

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