Relazioni
Giovani e violenza: disorientamento e speranze
Il pestaggio contro Willy Monteiro Duarte, lo stupro di gruppo a Matera: non si tratta di casi isolati. Da qualche anno la violenza erratica avvilisce le nostre vite e, peggio, quelle dei nostri figli. Passeggiare o intrattenersi in alcuni quartieri di certe città o forse di tutte le città – perché il male abita ovunque – è diventato un rischio enorme: per futili motivi il branco ti accerchia e se ne esci vivo puoi dirti fortunato.
Vittime e aggressori sono giovani, spesso giovanissimi. La “cultura della movida” – il cocktail micidiale di droga, alcol, sesso e violenza – il virilismo esasperato, il patologico culto della forza muscolare, la predilezione per sport aggressivi fondati su tecniche di combattimento, la narcisistica esibizione di sé, la paura della vergogna e la perdita del senso di colpa, uno scorretto senso dell’onore, il clima di odio e rabbia strumentalizzato da una certa politica nostalgica dello squadrismo, possono in parte fornire le coordinate di un quadro desolante, ma si tratta di cause collaterali. Le spiegazioni sono più profonde, più radicali e ci chiamano in causa, tutti.
LA FAMIGLIA non riesce più a svolgere il suo ruolo, i genitori non ce la fanno più a educare i giovani. Non è una colpa, è un dato di fatto. Non può darsi educazione costruttiva quando i genitori sono sopraffatti dall’ansia della sopravvivenza, dalla piaga della disoccupazione, dalla quotidiana lotta per conservare un impego, dalla preoccupazione di rendere fruttuoso il poco che hanno. I rischi connessi alla precarizzazione del lavoro, la tutela degli interessi del ceto imprenditoriale e non dei diritti dei lavoratori – soprattutto dopo l’abolizione dell’art.18 – costringono molti genitori a dover scegliere tra famiglia e contratti capestro.
Dilaniati dalla smania efficientistica di un mondo in cui il principio darwinistico mors tua vita mea ammorba i rapporti di colleganza trasformandoli in una competizione sfrenata e malata, anche i grandi professionisti, i dirigenti e i manager, in fondo sono vittime del sistema: obbligati a convogliare tutte le loro energie nel lavoro a scapito della cura per i figli, sono genitori assenti.
LA SCUOLA è burocratizzata, divorata da una miriade di progetti che sottraggono tempo alla cultura e allo studio (ma consentono di far girare denaro), snaturata rispetto alla sua tradizionale funzione di mediazione culturale, ridotta a una routine basata sull’intercettazione di fondi, valutazione d’istituto, attività organizzative e propagandistiche orientate all’accaparramento del più alto numero di iscritti, in un orizzonte che fa della competizione tra istituti il nuovo volto della scuola-azienda: in questo contesto non c’è spazio per l’educazione. A ciò si aggiunga, poi, la curvatura sempre più pronunciata verso le discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) e per converso la conseguente marginalizzazione o, in generale, il ridimensionamento in termini di ore scolastiche, degli studi umanistici, perché inutili rispetto alle esigenze del mercato, i veri fari che dettano la direzione dell’istruzione scolastica: ne derivano una forte riduzione negli studenti dell’autoconsapevolezza, della coscienza dei propri stati emotivi, una scarsa propensione all’empatia, alla capacità di comprendere gli stati d’animo propri e degli altri, attitudini che lo studio della letteratura, dell’arte, della filosofia promuovono e sostengono e che invece sono spesso sostituite da un’egolatria patologica pronta a esplodere in violenza verbale e agita.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. I ragazzi affermano se stessi non chiarendosi a parole, ma picchiando e nelle aggressioni c’è sempre una vittima, che resta tale anche se non arriva a morire; identificano erroneamente la forza nella furiosa esternazione della loro rabbia, confondono il sesso con l’amore e sostituiscono lo stupro al corteggiamento, non conoscono la differenza tra il volere e il desiderare, ignorano il piacere delle carezze e degli abbracci perché possedere una donna è più da macho e bisogna dimostrare di essere maschi: così fece Achille ferito nell’onore virile da Agamennone che gli sottrasse Briseide al cospetto dei compagni d’armi. E fu l’orrore.
E così il mondo va avanti da secoli: alle ragazze si insegna sin da piccole ad essere forti, ma chissà perché con i ragazzi non si insiste abbastanza sul valore del rispetto; ai deboli si dice che devono imparare a difendersi, ma per i bulli e i violenti la certezza della pena stenta ad arrivare; il cittadino onesto è deriso come “il solito fesso” che rispetta le regole in un’Italia cresciuta nel culto dei furbetti e degli indifferenti che sul “chi te lo fa fare” hanno costruito una filosofia di vita.
Non si può perdere altro tempo, non si può assistere ad altre violenze, è un dovere ricostruire le basi dell’umanità a partire dall’IMMAGINAZIONE, dalla proiezione di sé oltre il proprio ego. “La capacità di immaginare è fondamentale per l’empatia: immaginare che lì fuori ci sia qualcun altro che ha pensieri simili a noi, che sente come sentiamo noi” – scrive G. Carofiglio nel suo recente saggio “Della gentilezza e del coraggio” – è la chiave necessaria per ricominciare il cammino.
Seneca nel I secolo d.C. osservava: “La Natura ci ha generati uniti dal legame di nascita, generandoci dalle stesse cose e per le stesse cose. Questa ci infuse amore reciproco e ci fece socievoli”. La violenza, dunque, è contro natura, è contro la nostra natura di esseri umani e non di bruti.
Lo studio dei classici serve a questo, a scoprirci umani e a dare senso alle nostre vite orientandole verso condotte che siano degne della natura umana. E la scuola in questo percorso ha un ruolo decisivo, che va ben oltre la sistemazione dei banchi con le rotelle e il rinnovo degli arredi di classe.
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