Governo
Giornalisti stanchi del giornalismo più che della politica
E se alla fine invece dell’antipolitica finisse tutto in antigiornalismo? Se invece dell’incompetenza nella politica, o insieme ad essa il problema fosse che l’informazione non sa informare? Da un po’ di tempo il giornalismo ha rivolto uno guardo dall’alto verso il basso alla politica, di fatto affiancando l’antipolitica. Una critica legittima, ma anche facile, al personale della seconda o terza repubblica. Con un’ondata di ritorno che comunque nessuno considera: il fatto che i politici più incompetenti siano altri giornalisti.
La vicenda di questo Giuseppe Conte, professore ordinario di diritto trovatosi a guidare la baracca ha messo in luce questa ondata di ritorno. I giornalisti si chiedono: ce la farà quest’uomo qualunque paracadutato a Palazzo Chigi a gestire questo paese? Saprà dove mettere le mani? Ma come? Uno che insegna diritto a quelli cui poi i giornalisti si rivolgono per essere difesi dalle querele che portano a casa un giorno sì e l’altro pure non saprebbe dove mettere le mani nella gestione di relazioni che hanno a che fare con il diritto?
Recentemente abbiamo anche visto uno dei virologi diventati noti in tv che ha accettato di candidarsi in politica sottoposto a un fuoco di fila di insinuazioni falso-bonarie e complimenti tra il serio e il faceto come un remigino al primo giorno di scuola. Ma come? Uno che è ordinario di una qualche branca della scienza all’Università di Pisa deve essere preso in giro per una sua scelta di dedicare una parte della sua vita al bene pubblico? Un giornalista gli ha addirittura chiesto quanto prendeva nella sua attività attuale per verificare se la scelta fosse motivata da considerazioni economiche.
La realtà è che l’elogio dell’incompetenza nasce proprio dal giornalismo e non è un fenomeno solo italiano. E infatti risulta che fosse un giornalista del Times quel Michael Gove che pronunciò per primo la parola d’ordine “enough of experts”. Se consideriamo l’ironia del fatto che questo giornalista è stato Secretary of State for Education (in inglese, il ministro dell’istruzione) è chiaro che politica e giornalismo sono così vicini da sentirsi aggrediti ogni qual volta si sentano, entrambi, minacciati da una intrusione, anche temporanea, di qualche altra figura professionale. E così un professore universitario è considerato come un “bocia” e sottoposto all’ostia dell’alpino dai professionisti della “comunicazione”. Chi è abbastanza anziano da aver fatto il militare sa cosa intendo. C’è invece meno stupore per un comico che scende in politica, perché in fondo un comico “comunica”.
Il triangolo che lega politica, giornalismo e incompetenza presenta una larga evidenza nel tempo e nello spazio. Va ovviamente ricordato che una parte di questa evidenza deriva dall’ospitalità che il giornalismo vero provvede con tolleranza alla politica, garantendo una professione di emergenza a chi non ce l’ha, e nei politici sono molti. Ma l’evidenza è così profonda da non poter essere ricondotta a questo: Meloni giornalista, Salvini giornalista, Tajani giornalista. Ho sentito Salvini dire: “mi piacerebbe ritornare a raccontare storie”, e nessun collega giornalista che abbia avuto l’ardire di chiedere: “perché, hai smesso?”. All’estero? Boris Johnson, giornalista, Erdogan, giornalista. Un po’ di storia? Mussolini, un giornalista vero.
Il giornalismo giudica la politica come giudica se stesso. “Non comunica bene”, è l’inizio e la fine del giudizio. L’oggetto della comunicazione non entra nel dibattito perché fa parte della competenza. E non è neppure preso in considerazione se quello che si comunica è nell’ambito di quello che si può fare. Se la politica fosse il bridge, e un po’ lo è, tutto si concluderebbe con la fase di dichiarazione, quando si annuncia cosa si intende vincere; il gioco della carta, che è dove si vince e si perde davvero, non importa a nessuno perché è roba da tecnici, e anche perché si percepisce che non ci si arriverà mai: la politica è un’eterna “dichiarazione”.
La comunicazione dovrebbe essere il tema del giornalismo più che della politica. Purtroppo, sul concetto di comunicazione la politica nel giornalismo ha fatto più danni del giornalismo in politica. Il concetto di comunicazione si è allontanato da quello di “conoscenza” e si è avvicinato e talvolta mischiato a quello di “vendita”. I nostri giornalisti sono concordi nell’ammettere che Salvini sia un abile politico e un grande comunicatore, mentre è un grande venditore. L’ha dimostrato in tutta la sua carriera, quando il prodotto da vendere era il nord e ora quando la campagna da “prima il nord” è diventata “prima gli italiani”. E i giornalisti schierati affiancano queste forze di vendita, o ne contrappongono altre.
I lettori si chiederanno il perché di questa acredine e di questo attacco. C’è ovviamente un motivo bieco. Io sono un professore universitario che si indigna a veder mettere alla berlina altri professori universitari. Del resto, sono una casta i politici, sono una casta i giornalisti, permetterete che anche a noi, tecnici che formano tecnici, possa venire la tentazione di reagire da casta quando le caste ci rompono le scatole. Ma c’è anche un motivo meno bieco: la domanda di giornalismo vero e di comunicazione vera. Dei giornalisti mi hanno spinto a scrivere, e a scoprire che si può arrivare con la scrittura a zone che risultano impervie per la matematica, che è la mia professione. Ho voluto che nel corso di laurea di finanza quantitativa che ho fondato e diretto, quanto di più tecnico ci possa essere, ci fosse un corso di giornalismo finanziario, per creare una figura che abbia dentro di sé gli algoritmi e la penna, la tecnica e la comunicazione. Perché comunicare è una missione che va oltre la politica, ed è essenziale soprattutto per le verità scomode e complesse: la comunicazione più difficile e alta, quella della verità e della consolazione, più che dell’imbonimento e del potere.
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