Immigrazione
La Riace che non demorde e che riparte da se stessa
Mentre ci salutiamo in un abbraccio me lo chiede guardandomi dolce negli occhi, “allora, hai trovato quello che cercavi?”. Non è facile andare via da Riace dopo appena tre giorni. Qui le tracce di vita sono segni lasciati sui muri, tra le case, dentro le vetrine di negozi serrati e bui in cui il tempo della polvere è appena all’inizio. Il parco giochi è un sepolcro di altalene vuote e il rumore dell’assenza rimbomba tra le strade silenziose. Ci vorrebbe un’occasione meno sintetica per decifrarne le stratificazioni; o forse è il vento di tramontana che batte forte in questi primi giorni invernali ad amplificarne l’intensità.
Riace oggi è viva, e vivi sono i suoi abitanti di più vecchia data, ma la presenza di una solitudine improvvisa marca il confine tra lo ieri e l’oggi. Trecento circa sono le persone tra uomini, donne e bambini che non ci sono più, “il progetto di accoglienza è finito” ci dicono in molti, magre sono le speranze che qualcosa possa accedere, nonostante la mobilitazione di questi giorni di solidarietà per Mimmo Lucano. Nigeriani, eritrei, afgani, pakistani, irakeni, somali, etiopi, intere famiglie hanno dovuto lasciare le loro case nel giro di due settimane. Vivevano qui, chi da mesi, chi da anni. E chi è potuto rimanere pare spaesato, in attesa di un segno del destino. “Sai, le sere d’estate da quaggiù si sentivano le loro voci, le loro lingue si mescolavano e il muro di suono arrivava alle nostre finestre facendo mulinello tra le tende, filtrava nelle nostre case”. Era bello e inaspettato vedere rivivere Riace, ci raccontano, qui dove i ragazzi del posto appena possono scappano alla ricerca di un lavoro, se ne vanno al nord, in Europa, e se tornano non è che per un paio di settimane d’estate.
Il vento batte, si infila tra le vie strette, tra i tetti, fischia nelle intercapedini. Non è facile immaginare quello che accadrà, il vento porta con sé troppo silenzio. Ciò che è certo è che un nuovo e inatteso spopolamento ha colpito questo paese di quattrocento anime. Mentre rabbrividiamo fuori dalla Casa della Poetessa, dove una manciata di bambini stranieri sono accolti in un improvvisato doposcuola, Lara mi racconta del suo impegno per questo paese. “Non bisogna mollare, bisogna parlarsi – mi dice – non dobbiamo essere solo una visita momentanea”. C’è chi nelle ultime settimane è venuto qui per manifestare, per conoscere, per progettare alternative. Ma manca un coordinamento, una base che faccia sì che le energie non si disperdano nei prossimi mesi. È un momento importante e non va sprecato. Uno schiaffo di vento gelido ci graffia la faccia. “Mio marito che è freddoloso dice che le rivoluzioni vanno fatte d’estate!”. Ci scappa da ridere e lo sento, il «brivido del momento», una comunanza di umanità, d’intenti. “Domani nella battaglia pensa a me”, penso stretta fra i denti ripetendo il titolo di un libro, i versi di un dramma. Ma la battaglia, domani, ci sarà?
Ci sono certe letture che tornano, certi libri che non abbandonano mai del tutto i pensieri. Sono rari quelli che non si sostituiscono negli anni, che non si lasciano sovrastare dalle letture successive. E le lucciole di Pasolini, ripercorse e rinarrate una decina di anni fa da Georges Didi-Huberman nel saggio Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, è uno di quei libri che vorrei avere sempre con me, al riparo nella tasca interna della giacca. La mia copia qualche tempo fa si è bagnata sotto un vaso di fiori rovesciato e come per un rito alchemico sono nate venature bluastre tra le sue pagine. Come se i fiori sparsi a terra si fossero trasformati in inflorescenze di carta. Si tratta di un libro d’azione, di reazione, di umanità. Di politica, per usare una parola che ha perso tanto senso in questi ultimi anni. E parte da una domanda molto chiara: che cosa è successo alla nostra coscienza civile, alla reazione culturale, alla politica appunto? Perché i segni nella notte sono come lucciole sparse e rade, e soprattutto, anche quando ci sono, fatichiamo a riconoscerle prima che sia troppo tardi? La metafora pasoliniana parla di riflettori “feroci” che annullano i più discreti lampi del pensiero, che sovrastano quelle lucciole che non sono altro che la metafora dell’umanità per eccellenza, “l’umanità ridotta alla sua più semplice potenza di farci segno nella notte”. La luce accecante dell’era dello spettacolo, ieri televisivo e oggi social, ha annebbiato quello che Pasolini chiamava lo “spirito popolare”. Ecco cosa ho trovato a Riace, dove i riflettori dello spettacolo politico hanno pensato di spazzare via il lavoro sociale ed economico di una piccola comunità che andava avanti da quasi vent’anni. Ho ritrovato il sapore dell’impegno civile, quel “lo spirito popolare” del fare insieme della gente. Qui le persone continuano a progettare integrazione, a lavorarci. Come a voler dire a gran voce che le lucciole non si lasciano estinguere così facilmente.
Alessandro Leogrande, scrittore d’origine tarantina prematuramente scomparso esattamente un anno fa, nel suo ultimo libro d’inchiesta La frontiera, dedicato proprio alla tragedia del nostro tempo, al Grande Esodo di uomini e donne che fuggono da guerre, dittature, carestie, parla di “una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre”. È la frontiera, una linea che si sviluppa tra “luoghi in perenne mutamento, che coincidono con la possibilità di finire da una parte o rimanere dall’altra”. Qui a Riace questa linea in continuo movimento aveva come trovato uno spazio di sospensione, di accoglienza, un nucleo concretizzato di azione popolare.
Quando ci sono vittime ci sono anche carnefici, ma non solo. Ci sono responsabilità diffuse. Ci sono le zone grigie. E se il Novecento con la sua violenta liturgia ci ha lasciato un insegnamento è che stare a guardare senza nulla fare si chiama omissione di soccorso, si chiama connivenza. Se si vuole ripartire è anche da qui che bisogna farlo, da questa sconfitta tutta italiana. Partiamo da qui, ripartiamo da Riace.
(Ringrazio, ringrazio veramente Eugenio Tibaldi che con l’ideazione del progetto Artisti per Riace e con la sua chiamata alle armi del cosiddetto mondo dell’arte – definizione forse goffa, forse snob, senz’altro insufficiente – ha fatto sì che in un fine settimana di novembre quaranta persone da tutta Italia si trovassero a Riace per conoscere, conoscersi e ripartire con una riflessione per quanto possibile comune, per progettare qualcosa di concreto insieme).
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