Relazioni

Finché morte non li separi

15 Ottobre 2019

Cosa ci impedisce di chiamare col suo nome un assassino? La pietà che si deve, così dicono gli anziani, ai morti? Il dubbio di un pentimento in extremis? Il fatto che non riusciamo a capacitarci di come un marito, un padre, possa massacrare la sua famiglia e poi decidere di farla finita? Poi, non prima. L’ennesimo caso di omicidio fra le mura domestiche ha scatenato, a mezzo stampa, una serie di reazioni, e conseguenti riflessioni, che cercano di trovare una giustificazione al fatto. Depressione, stress lavorativo, eccessiva pressione: le ipotesi si rincorrono sui giornali a fianco delle testimonianze di chi, intervistato, giura che si trattava di “una persona normale” di una “famiglia tranquilla”, che “nulla avrebbe fatto pensare ad un epilogo tanto tragico” di quello che, per i più sensibili, era sembrato soltanto un momento di difficoltà personale. Eppure qualche segnale sembra ci fosse stato. Troppo poco, sostengono alcuni, o non abbastanza da creare i presupposti per un intervento che, in ogni caso, non è chiaro da quale soggetto sarebbe dovuto arrivare.

Perché il punto, in questo paese, è che i panni sporchi vanno lavati in casa, che la comunità non deve essere coinvolta nei problemi familiari, meno che mai se si tratta di qualcosa che mina l’immagine positiva del nucleo familiare.  Perché la famiglia non è un’istituzione sociale come le altre, quindi soggetta ai suoi cedimenti, ai suoi problemi, ai tutti i bisogni di sostegno e supporto ai quali, senza troppe remore, ricorrono le altre realtà. La famiglia è la prima e ultima risorsa: deve bastare a sé stessa.

Se poi si parla di problemi immateriali, come i disturbi psichici, allora lo stigma si moltiplica, perché in Italia non siamo ancora abituati a chiamare le cose con il loro nome, prima di tutto le malattie. Nomina sunt consequentia rerum dicevano gli antichi e quando non si nominano le cose in modo corretto, le cose non si affrontano nemmeno in modo corretto. Una famiglia indigente, una famiglia che affronta un lutto o che si confronta con una pesante malattia è guardata con rispetto, a volte anche con spirito solidale, dalla comunità. La malattia mentale è, invece, ancora qualcosa d’innominabile e la famiglia che ne è colpita, così come le famiglie “difficili” o “diverse”, osservata da lontano, con diffidenza. Perché chi si fa i fatti suoi campa cent’anni, ma anche perché queste situazioni ci interrogano, ci mettono in discussione, ci obbligano a guardare in faccia una sgradevole realtà e cioè che, per quanto la retorica ne abbia fatto l’emblema del bene primo e intoccabile, la famiglia è un fatto umano e, come tutti i fatti umani, soggetto alla crisi, allo scioglimento, alla fine. Dimenticare questo significa imporre, sulle spalle delle famiglie, un peso insopportabile – quello della perfezione a dispetto di tutto – e su quelle dei singoli individui che le compongono la responsabilità di dover aderire ad un modello, di prestar fede ad un patto inviolabile, quando di inviolabile dovrebbe esserci solo il rispetto per l’essere umano.

Così accade che ogni giorno ci siano donne che sopportano la violenza domestica, arrivando anche alla morte, pur di non denunciare il proprio fallimento come mogli, come compagne o amanti, che ci siano figli che non riescono a uscire dalla morsa di un rapporto genitoriale abusante, che ci siano uomini vittime di pressioni psicologiche (e fisiche). Spesso queste situazioni non reggono nel tempo. Gli uomini non sono ideali e costringerli a nascondere le fragilità significa soltanto spingere, ogni giorno, più in là il limite della loro sopportazione. Eppure, a fronte del cordoglio che, ogni volta che avviene un tragico fatto fra le mura domestiche, sentiamo tutti di provare, quasi nulla viene fatto per modificare non tanto la percezione del “male” in casa, ma della possibilità di fallimento, della normalità della fine. Preferiamo pensare al momento di follia, compatire la sorte di chi ha ceduto, ma senza mettere in dubbio, senza intaccare l’immagine di perfezione della famiglia italiana, ultimo baluardo dietro al quale nascondere le nostre umane mancanze. Così, ancora una volta, la rappresentazione del dramma passa da un’immagine che non può non lasciare turbati: vittime e carnefice insieme sulla stessa locandina funebre. Un’ultima violenza verso chi è stato assassinato, un’ultima mancanza di assunzione di responsabilità da parte della società. Perché se tutte le persone su quella affissione sono state vittime di una mancanza di sostegno e cura, alcune le sono state più di altre e non riconoscere che l’immagine della famiglia, ancora una volta qui rilanciata, può arrivare a soffocare chi la vive, in un crudele gioco di pressioni, significa uccidere, ancora e ancora, chi non ce l’ha fatta.

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