Filosofia
Filosofia del complotto
Caro Cigno Nero,
Ho letto che negli Stati Uniti circolano voci sul Covid 19 che non esiste; sul complotto che ha suscitato una reazione isterica all’epidemia per contrastare la rielezione di Trump, sulle manovre dei mass-media per gonfiare il numero delle vittime.
Purtroppo non soltanto la società statunitense è aperta al complottismo, ma di recente anche in Italia si stanno accogliendo alcune tesi di QAnon soprattutto da parte di gruppi di estrema destra e movimenti contro i vaccini.
Questa specie di religione, però, che prospetta l’imminente fine del mondo, si colloca oltre i confini ideologici, individuando i segni di questa profezia nei terremoti come nelle pandemie, vedendo complotti dappertutto. L’idea che la nostra vita sia controllata da complotti costruiti in totale segretezza, da poche persone contro il popolo, con l’organizzazione di guerre, attacchi terroristici e pandemie, offre, con paradossale effetto rassicurante, una risposta a piccoli e grandi problemi?
Pare che siano particolarmente attratte dal complottismo, nella sua variante peggiore, persone dalla mentalità manichea, inclini alla sfiducia, violente e con una visione del mondo cinica e individualistica.
D’altronde il complottismo può colmare tre vuoti: sul piano conoscitivo, un bisogno di risposte e certezze; sul piano esistenziale, il bisogno di sicurezza e controllo sulle cose;
sul piano sociale, il bisogno di autostima, il senso di superiorità per il possesso di conoscenze, anche se infondate, che gli altri non hanno.
Per di più, sostenere un complotto offre il vantaggio di poter incolpare altri per i mali del mondo, e di sentirsi intelligenti.
Tra queste macerie, neanche la filosofia può darci una speranza?
Viola
Cara Viola,
Le teorie del complotto sono il risultato di un bisogno antico, connaturato all’uomo. Il pensiero magico, nato con l’umanità stessa e tramandato di generazione in generazione, ha dato origine al Mito, che rappresenta il tentativo di mettere ordine nel caos del mondo. E come? Vedendo dietro ogni cosa o evento qualcos’altro che la realtà apparente nasconderebbe. Il ritorno del pensiero magico con le attuali teorie complottiste ci dice che non ci siamo mai davvero emancipati da quel bisogno tanto disperato quanto illusorio di conoscere tutto e di capire in maniera definitiva.
L’epoca del virtuale in cui viviamo ha dato maggiore eco ai complottisti, che hanno fatto della rete, e in particolare dei social media, il loro palcoscenico, trovando terreno fertile in un luogo sovraffollato di notizie e opinioni uniformate nello stile dello scoop, che mirano al contagio del pensiero più che al tempo per pensare. Se dovessimo tracciare idealmente un identikit del complottista, sicuramente vi rientrerebbero inclinazione alla sfiducia, aggressività, cinismo, individualismo e una mentalità manichea, ma è sul bisogno di colmare un vuoto conoscitivo, esistenziale e sociale che sta il lato più interessante di questo fenomeno. Ciò che caratterizza più di tutto il complottista dei nostri giorni è il suo presentarsi al popolo (reale o virtuale che sia) come filosofo, e ad un primo sguardo non sembrano poche le somiglianze: mostra di muoversi abilmente tra i diversi piani della realtà (quello sociale, economico, politico, psicologico e ovviamente esistenziale); si adopera per smantellare quelle che ritiene le false credenze legate alla narrazione dominante, mettendo in discussione le certezze; con la sua visione capace di cogliere ciò che è nascosto, svela e rivela, offrendo un cambio di prospettiva.
Per dirla in breve, sarebbe quello che ti sveglia dal sonno dell’ignoranza, quello che vuole liberarti dalle catene per farti uscire dalla caverna delle ombre e mostrarti la verità delle cose. Ma che tipo di verità? Quella socratica del “so di non sapere” come condizione imprescindibile della ricerca? O magari quella del filosofo ignorante di Voltaire, che sa confrontarsi con i limiti umani? Nessuna delle due, perché il complottista è portatore di una verità assoluta e definitiva e va perciò alla ricerca di tutto ciò che conferma le sue teorie. Con buona pace di Popper, che ci ricorda che esiste sempre un cigno nero, e che ogni teoria va messa alla prova sottoponendola a ciò che potrebbe renderla falsa e non a ciò che la conferma. E se William James ci dice che “un’idea diventa vera dagli eventi”, perciò solo la nostra esperienza può verificarla (o confutarla), ed è quell’esperienza che sta nel futuro, il complottista, annunciandosi come profeta, ci dice che di quell’esperienza non abbiamo bisogno.
Certo, potremmo dire che, proprio come il filosofo, comunque indaga la realtà, ma se quest’ultimo si affida al dubbio, il complottista si fa guidare dal sospetto, e la differenza tra questi due approcci è fondamentale: la premessa su cui si basa il sospetto è quella del colpevole da trovare a tutti i costi, lì fuori da qualche parte, un colpevole che coincide con una risposta inequivocabile; il dubbio, al contrario, apre alla domanda come stile di vita, e quindi allena a sostare nell’incertezza. Ed è proprio qui il punto. Se le teorie del complotto riscuotono un certo successo, è perché fanno presa proprio sulla nostra vulnerabilità di fronte all’incertezza, sul nostro bisogno di risposte e di controllo in un mondo che diventa sempre più complesso. Il complottista sa intercettare tutto questo perché ne è parte, perché vuole disperatamente semplificare quella complessità, sostituendovi, con la complicità di slogan eclatanti e la ricerca ossessiva di un ampio consenso, una narrazione alternativa in cui esiste una risposta per tutto, che spiega tutto, che mostra come tutto torna, dalla scienza al sistema economico, dall’apparato sociale a quello politico. Ecco allora che gli eventi come le pandemie, che fanno paura perché ci ricordano la precarietà dell’esistenza, diventano menzogne costruite ad hoc per arricchire i potenti e instaurare nuove dittature: il virus, nemico invisibile, ha così un volto contro cui puntare il dito.
Ma, ad uno sguardo più attento, queste teorie del complotto tendono a creare le stesse condizioni della realtà che criticano, perché ciò che si prefiggono “filosoficamente” di smantellare non sono le certezze esistenti, ma l’incertezza, proponendosi come nuova certezza. E non c’è nulla che sia meno filosofico del non saper stare a proprio agio nell’incertezza, oltre al fatto di non considerare che la conoscenza (non solo quella scientifica) ha bisogno dei suoi tempi, e che una visione chiara delle cose presuppone anche l’eventualità di tornare indietro per poi percorrere altre strade.
Ti chiedi se la filosofia possa salvarci da queste macerie. Se ciò che rende interessante la filosofia sono le domande che sa porre a dispetto della smania di risposte, dovremmo innanzitutto imparare a interrogarci e a interrogare il mondo, per districarci nella quantità di informazioni da cui siamo subissati, senza accettare o rigettare tutto in blocco.
Trovandoci faccia a faccia col filosofo complottista e la sua urgenza di risposte, potremmo intanto puntare sull’ironia, e con Socrate e Voltaire ricordarci che “bisogna essere dei grandi ignoranti per rispondere a tutto quello che ci viene chiesto”.
In questo campo, possiamo starne certi, nessun complottista può essere scambiato per filosofo.
Le cose hanno “cento membra e cento volti”, diceva Montaigne a proposito dei paradossi e delle contraddizioni del mondo. Perciò non smetteva mai di chiedersi: “Che cosa so io?”. Qual è oggi il senso di questa domanda?
Maria Luisa Petruccelli
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