Costume
Famo a fidasse…
Qualche giorno fa, in uno degli innumerevoli programmi televisivi dedicati all’indottrinamento del consumatore, un esperto, parlando del caporalato, spiegava che la vera disgrazia dello sfruttamento di manodopera migrante consiste in realtà nel fatto che essa comporta l’abbassamento dei prezzi al consumo e concludeva accoratamente con questo invito alla responsabilizzazione: “Quando, al supermercato, il consumatore acquista beni alimentari che costano troppo poco contribuisce di fatto allo sfruttamento ed alla schiavizzazione della manodopera che li produce”.
Diceva, l’esperto, queste enormità col sorriso sulle labbra, come se parlasse di Babbo Natale ai nipotini.
In questa visione onirica del mondo il responsabile dell’oppressione e dello sfruttamento non è, dunque, chi ne ricava profitto (che in fin dei conti “fa solo il suo mestiere”) bensì chi, essendo a sua volta oppresso e sfruttato, tenta di risparmiare un euro per arrivare a fine mese.
Affermazioni del genere passano oramai del tutto inosservate.
Dopo aver lavorato ai fianchi, per decenni, il consumatore al fine di “responsabilizzarlo” (attenzione alle etichette, badare alle scritte in piccolo, occhio agli ingredienti, IGT, DOP, DOC…) al punto che per acquistare un salame più che la laurea ci vorrebbe il dottorato, gli si dà il colpo di grazia colpevolizzandolo.
Se provi a risparmiare non sei solo la nullità che sapevamo ma sei, proprio tu, il vero criminale. Il colpevole di tutto quello che non va nel mondo.
Questi esiti non sono sorprendenti.
La responsabilizzazione di un generico “Citoyen” – che non esiste se non negli opuscoli di educazione civica – nei confronti di una ugualmente immaginaria “Comunità”, in cui vige un’ideale e generosa “comunanza d’interessi” è, da anni, una costante dell’indottrinamento progressista. E’ tra questi fantasmi che si aggira ogni intellettuale rispettabile, che voglia scrivere sui giornali che contano, pubblicare con gli editori che contano, apparire nei salotti mediatici che contano. Non stupisce nemmeno, dunque, che, in perfetta buonafede, egli non sappia più da quale parte stanno i colpevoli e da quale gli innocenti; questo, assai saggiamente, lui lo definirebbe anzi “avere una visione articolata e non semplicistica della realtà” perché, si sa, le cose non sono mai “bianche o nere”…e in quelle brume, in effetti, tutte le vacche sono grigie. Figuriamoci allora se, muovendosi in questa atmosfera nebbiosa, egli possa ancora fare distinzione tra moral suasion e operazione di polizia: l’una trascolora nell’altra nello spazio di una sola pennellata.
E’ il caso esemplare di un elzeviro apparso qualche giorno fa (16 luglio) sul Corriere della Sera, a firma di uno scrittore momentaneamente assai noto e celebrato per avere vinto un premio letterario associato a un liquore: Emanuele Trevi.
Il pezzo comincia con una fantasmagoria presentata in forma di assioma:
“L’essenza della democrazia consiste nel fidarsi di chi sa”
E finisce con l’apologia della Staatspolizei, nella bonaria figura del vigile urbano:
“E’ sempre meglio che arrivi il vigile urbano a ricordare a tutti cosa bisogna fare prima che la questione si faccia personale”.
E anche questo è tipico del progressista per il quale il massimo di ferocia, per l’ordine costituito, consiste in fondo nel prendere Pinocchio per le orecchie; Bolzaneto, la Diaz, i pestaggi nelle carceri e gli omicidi nei commissariati sono solo spiacevoli incidenti dovuti a “mele marce”.
Da una concezione fiduciaria della democrazia al bonario elogio del manganello in meno di tremila battute.
La performance sembra straordinaria ma si tratta di un’illusione ottica.
La freccia scagliata dal signor Trevi, in realtà, rimane immobile come quella di Zenone. Scoccata ma ferma al punto di partenza.
Fidarsi di “chi sa” vuol dire infatti, prima di tutto, fidarsi proprio di lui, del signor Trevi.
Perché egli è, si capisce, tra coloro che sanno.
Certo, se così non fosse, e se noi, per disgrazia, ci fidassimo dei nostri occhi e del nostro cervello saremmo autorizzati a prenderlo a pernacchie.
Ma per fortuna non è così e qualora lo facessimo, rientreremmo subito tra quelli che corrispondono al ritratto dell’ignorante diffuso dai commissariati culturali o, per citare ancora il nostro intellettuale di fiducia:
“Quelli che non saprebbero mai e poi mai definire una cellula o una proteina, ma prendono decisioni gravi come quella di non vaccinarsi in base a consigli dell’insegnante di yoga, o perché un amico di un amico lavora in un certo posto ed è sicuro che.”
Lui invece, che sa bene di cosa parla, può permettersi di definire la democrazia come farebbe Topo Gigio.
E chiunque “non si fida” di lui e della sua comitiva, è un ignorante oppure un delinquente che va trattato a colpi di manganello, taser e lacrimogeni.
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