Famiglia
“Per un figlio”, un film… veneto
Tutti vi diranno che è un film sullo Sri Lanka, e penserete di essere andati a vedere un film multiculturale. E invece avete visto una piccola realtà italiana come ce ne sono tante. La misera vita di una donna che si fa un mazzo quadro, e la speranza di un figlio.. “senza qualità”. Come la tribù invisibile cui appartiene, le famiglie dei badanti, che per lavoro accudiscono un’altra famiglia, per far fronte alla propria. Una condanna all’assenza dalla società, non per questioni culturali, ma per una mancanza di tempo. Tempo che la protagonista spende per lo più con una vecchia signora veneta che presta la sua immagine per l’opera prima di Suranga (ok, il nome intero è Suranga Deshapriya Katugampala). Un nome lunghissimo dietro al quale vogliamo trovare una storia diversa, e invece ci ritroviamo la nostra. Un’opera d’arte non può avere un messaggio, deve averne tanti, per persone diverse. E il film di Suranga ha proprio questo scopo, di essere universale, non solo una storia sulla migrazione. Certamente però, l’arte è tale anche se crea un dibattito, e quindi prendo qualche minuto del vostro tempo per alcune considerazioni.
Sono quasi un milione di persone in Italia (secondo dati Inps 906.643 nel 2014, e in calo a 886.125 nel 2015) ma non se ne parla quasi mai. I lavoratori domestici in Italia sono un popolo invisibile, presenti nelle nostre case, ma non nei media, e neppure nella cosiddetta società civile. Senza parlare del mondo culturale, del cinema, della letteratura. La vita dei domestici in Italia è raccontata solo raramente, in film e serie tv che raccontano i ricchi, e nello sfondo “i filippini”. Già soltanto questo orribile modo di categorizzare i lavori su base etnica, i filippini come domestici, le romene come badanti, i “bangla” come venditori di alimentari, dovrebbe dircela lunga sulla totale insensibilità che contraddistingue la narrazione di persone che oltre a lavorare, hanno le proprie vite e famiglie, e figli italiani.
Di questo parla “Per un figlio”, di Suranga Deshapriya Katugampala, un veronese di origine singalese, che senza velleità di fare un pamphlet sociale, ci parla di una madre dello Sri lanka e del suo figlio adolescente.
Suranga ci porta dentro la vita di un bilocale del ricco Veneto, alle prese con la vita fantozziana della donna, madre, della madre sempre meno donna, e sempre meno madre. Un automa, che col suo motorino percorre strade forse per la prima volta filmate.
Fosse ambientato a Roma, “Per un figlio” forse avrebbe meno potenza. La scelta quindi di filmare in un paesino anonimo, circondato dalla natura, dà la possibilità al regista di stupire. “Non siete mai stati qui”, sembra dire. “Non siete mai stati qui, nei panni di un giovane di origine singalese, alle prese con gli ormoni dell’adolescenza”.
Che, non sapete cosa significa singalese? Io stesso ho scoperto solo recentemente che si dicesse così (grazie Himasha), dopo anni in cui con orgoglio dicevo la parola “cingalese” invece che “srilankese”, pensando così di dimostrare sensibilità e interesse verso le culture altre.
Parlare dei domestici insomma ha l’effetto placebo, è un po’ come il “Figurati se sono razzista, ho un amico romeno, oh i filippini sono tanto bravi e ordinati.” Li pagate per quello. Non è che per forza siano ordinati, fanno il loro lavoro. E questo lavoro è spesso tanto, tantissime ore spese appresso ai cazzi degli altri, con la pazienza di chi deve andare al bagno in pausa pranzo, ma c’è la fila. Così è la protagonista di “Per un figlio”, senza tempo per integrarsi. “Tanto non ci capisci niente”, borbotta il figlio uscendo da casa con i compiti non finiti, “Non parli neanche italiano”, la rimprovera. E lei subisce, ma con forza e dignità. Quando dà lo schiaffo al figlio (anvedi che spoiler, chi non l’ha mai preso alzi la mano), tutti ci sentiamo schiaffeggiati. Per l’ingratitudine, perché abbiamo sempre pensato che “il dolore degli altri è dolore a metà”.
Succede nella cinematografia sulla migrazione che gli altri siano raccontati solo come altri. Che l’origine etnografica dello sguardo non si tramuti in una ricerca dell’immagine e basta, della storia per quello che vale.
Madre e figlio non sono dello Sri Lanka, come non lo sono il regista e i vari collaboratori con nomi singalesi, sono semplicemente dei residenti invisibili. Non importa di dove siano. Ci raccontano una storia, e questa storia vale anche senza usare “il multiculturale”. E’ la storia di quanti cercano di trovare negli interstizi di tempo rimasti dai loro mille lavori, di mantenere le proprie tradizioni.
“Per un figlio” parla della perdita d’identità, del sacrificio per una vita migliore quando la vita migliore dipende in gran parte dalle relazioni con gli altri, dall’appartenenza a una comunità. E’ un film sugli amici del figlio, sulla nostra provincia. Ma è anche un film su chiunque, perché tutti siamo stati adolescenti, e figli.
La stessa gratitudine che vorremmo chiedere agli immigrati per poter avere la possibilità di vivere qui dovremmo darla a loro per aver contribuito alla nostra società, spesso rimettendoci. Non è un film che parla di sfruttamento però, non è una denuncia sociale, solo un ritratto. Un bel ritratto che per me è il segnale che c’è un nuovo regista in circolazione.
Alle pendici di un monte in Veneto c’è una donna dello Sri Lanka che accudisce una vecchia signora. La vecchia signora ogni tanto l’accarezza, e questo è l’unico tocco che questa donna riceve. Solo suo figlio, la notte, quando la trova, l’annusa, la sente donna. Una donna che ha dato tutta se stessa per una famiglia che non c’è più. Né in Sri Lanka, né tantomeno nella sua comunità. Non ha tempo per andare alle feste singalesi, si addormenta sulla sedia aspettando suo figlio di notte, soffre il mal di schiena ogni volta che solleva la signora che accudisce. E’ una situazione deprimente.
Chiedere gratitudine a questa donna mi pare un po’ troppo. Più che altro, dovremmo darla. Dovremmo darla a chi ha sacrificato la sua vita con i nostri vecchi, mandando i soldi a casa, dovremmo dare la gratitudine anche ai migranti economici, che comunque lavorano qui, e spesso danno vita a nuovi cittadini italiani, gli #italianisenzacittadinanza.
Il giovane di “Per un figlio”, con le sue paturnie sessuali, i vizi notturni e l’amore per i luoghi abbandonati, è decisamente uno di noi, facciamocene una ragione. Non è il multiculturale che ci salverà, ma il riuscire a guardare le persone senza chiedere loro di essere buone. Il giovane di “Per un figlio” con la sua ottima interpretazione ci porta sul baratro della depressione adolescenziale, e la madre oltre, facendoci vedere che perseverare a volte non è diabolico, è solo il sacrificio di un genitore. “Per un figlio” ci insegna il rispetto per chi si impegna senza fiatare. E visto che spesso queste persone sono senza una voce, è un bene che Suranga abbia avuto la voglia e la capacità di darci questa storia.
Devi fare login per commentare
Accedi