Famiglia
L’orologio del musicista, il mio papà
Ogni padre è felice quando vede la sua donna ed i suoi figli che possono mangiare il pane: possono allungare le mani nel cesto in mezzo al tavolo, pieno di pane fragrante, per essere toccato e portato alla bocca. Ha compiuto il suo dovere, per la sacralità della famiglia. Ha lavorato, sudato per i suoi figli e la sua sposa.
E si prenderà cura di loro: li guiderà, li vedrà crescere nella gioia ed anche soffrire e starà accanto, come una quercia che ripara dal vento, come una nave che squarcia le tempeste del mare e porta tutti alla sospirata riva.
E se cadono rovinosamente li prenderà sulle sue spalle e li riporterà nel giusto sentiero.
Il padre deve donare al figlio le sue radici, che non possono essere recise, anzi siano coltivate nel segno della tradizione che non deve morire, ma soprattutto le ali per farlo librare nel cielo.
Ha scritto Garcia Marquez: “Ho imparato che quando un neonato stringe per la prima volta il dito del padre nel suo piccolo pugno, l’ha catturato per sempre”.
E quando arriva la notte, le irriducibili sconfitte, tutte le possibili fragilità, allora c’è il padre.
Perché un padre deve essere lì: quello è il suo posto.
Il mio, raffinato musicista, -maestro di clarino e sassofono, amava il jazz- se ne andò troppo presto; aveva appena 45 anni: io ero un bimbo di otto anni.
La sua sposa me lo raccontava come un mite, delicatissimo e pieno di malinconia. Ma si amarono tantissimo.
Ho un ricordo indelebile attaccato alla mia pelle: il suo orologio un Longines con rubini del 1958.
Al mattino devo dargli corda: lo accarezzo, come se lo facessi con lui ed ascolto spesso Louis Armstrong che tanto adorava: “What a Wonderful World”.
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