Famiglia
Le parole della scuola
In un contributo messo in rete, Cristiano Corsini, docente di pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre, affronta questioni terminologiche non secondarie nella percezione della scuola di oggi:
«Quando, una quindicina d’anni fa, un allenatore disse in conferenza stampa che il suo gioco era “basato sulle ripartenze, non sul contropiede”, l’indomani i giornali scrissero così: “la squadra gioca con le ripartenze, non col contropiede”. Il fatto che, tutto sommato, agli occhi del grande pubblico, quelle ripartenze non presentassero differenze macroscopiche rispetto al vecchio contropiede, non impedì alla stampa di usare il nuovo termine. D’altra parte, il calcio è una faccenda complessa e, se un tecnico impiega un termine nuovo per significare qualcosa che a uno sguardo meno competente nuova non sembra, è bene che il linguaggio dei media inizi ad adeguarsi. Se interessato, il grande pubblico capirà: tra ripartenze e contropiede in effetti ci sono sottili differenze, e usare nomi diversi è il primo modo per riconoscerle (non mi soffermo sui benefici di tale riconoscimento).
Nella scuola le cose vanno molto diversamente. I media parlano ancora di Scuola Materna o addirittura di Asilo benché da trent’anni la locuzione corretta sia Scuola dell’Infanzia. La confusione è notevole, talvolta vengono fuse sotto la dicitura Asili sia la Scuola d’Infanzia (3-6 anni) sia i Nidi (0-3). Stesso destino tocca in sorte ai cicli successivi: è ancora un profluvio di Scuole Elementari, Medie, Superiori. Per tacere della tendenza, classista, a usare “Liceo” per definire tutto quello che succede tra i quattordici anni e la maggiore età. D’altro canto, si sente ancora parlare di Esami di Maturità (sarebbero “di Stato”), mentre il rilancio voluto da Draghi è stato interpretato nelle maniere più disparate, non capendo se il riferimento fosse a ITS o ITIS. Figuratevi quello che avviene quando la testata giornalistica sceglie di ospitare l’intellettuale di turno che si imbarca in discorsi su voti, giudizi e valutazione o su conoscenze e competenze senza avere contezza dei rapporti tra questi termini.
Perché, informando sulla scuola, l’informazione tende a usare termini inappropriati?
Perché, il più delle volte, chi fa informazione sulla scuola non è consapevole del fatto che si tratta di una faccenda complessa più o meno quanto il calcio. Chiunque ha frequentato le scuole, e quanto saranno diverse le scuole d’Infanzia di oggi rispetto alle Materne di trenta, quaranta o cinquanta anni fa?
Ecco, posso darvi una notizia: sono diverse. Molto diverse. Tanto diverse che la differenza è persino maggiore rispetto a quella che passa tra un contropiede e una ripartenza.
Tutto sommato, sarebbe opportuno informarsi, prima di informare»
Pubblicare in questa sede il contributo di Cristiano Corsini ha due scopi. Il primo è quello di dare un contributo alla diffusione di un buon modo di parlare (sono giornalista pubblicista e, di conseguenza, quando si parla di “media” devo tenere in conto della critica, almeno per la mia quota parte), il secondo è fare ragionamenti sul tema e delle proposte terminologiche.
A mio modesto parere, le locuzioni “nido”, “scuola dell’infanzia” e “scuola primaria” sono assolutamente da adottare in quanto sintomatiche di una diversa visione che supera elementi anche sessisti incarnati nelle precedenti nomenclature. Sono parimenti da utilizzare le locuzioni “scuola del primo ciclo” e “scuola del secondo ciclo” che segmentano ciò che oggi avviene entro le mura degli istituti comprensivi e quello che viene dopo il primo esame di Stato nella storia delle nuove generazioni. Parimenti la distinzione “scuola primaria” e “scuola secondaria” ha un suo senso, giacché segmenta in maniera diversa da quanto espresso da “primo e dal secondo ciclo”, mettendo in evidenza caratteristiche organizzative differenti: nella scuola primaria insegnano maestre e maestri laureati presso i Dipartimenti di Scienze della Formazione (trascuro il fatto che ci siano ancora molt* che insegnano ancora col diploma perché entro pochi lustri questo transitorio sarà esaurito) mentre nella scuola secondaria hanno accesso all’insegnamento laureati in diverse discipline diventati insegnanti a seguito di percorsi molto vari di abilitazione. Su questo tema, i percorsi di abilitazione mi soffermerò prossimamente in un contributo a parte. Nel nostro paese, chiamiamo maestri/maestre e professori/professoresse gli insegnanti di questi due tipi di scuola. I/le prim* afferiscono al primo ciclo e a ciò che lo precede (dal nido, alla scuola primaria, attraverso la scuola dell’infanzia) i/le second* sono parte del primo ciclo e colonizzano il secondo.
A seguito dell’evoluzione della normativa, sono emersi nuovi nomi che, temo, sia impensabile che soppiantino i precedenti, fatta salva la buroletteratura di genere. “Scuola media”, che già era la contrazione di “scuola media inferiore”, dovrebbe essere sostituita da “scuola secondaria di primo grado”, mentre la “scuola media superiore”, sintetizzata in “Scuola superiore”, è diventata “scuola secondaria di secondo grado”. Le locuzioni “medie” e “superiori” sono esse stesse una sintesi di espressioni più lunghe che le necessità del parlato hanno contratto in due modi diversi e, mi permetto di dire, a loro modo “politically correct”: medie e superiori, appunto. Coerenza avrebbe potuto esplicitare in “inferiori e superiori”, giacché logica dice che entrambe sono “medie”, ma non è piacevole sentirsi etichettare come “inferiori” e non si toglie niente a nessuno, se non per contrasto, chiamandosi “superiori”. Invero, la geografia ci insegna che ci siano diverse locuzioni similari che prendono semplicemente atto di differenze di altitudine: Bergamo alta e Bergamo bassa, oppure, più modestamente, Albisola superiore. Non credo che negli abitanti di Bergamo bassa o di Albisola vengano indotti problemi di autostima. Credo quindi sia accettabile conservare le locuzioni “scuola media” e “scuola superiore” in luogo di “scuola secondaria di primo/secondo grado” che non sono comprimibili (“primo e secondo” di che? Troppo vicini, peraltro a primaria e secondiaria che sono già altra cosa). Lo sono per necessità nel parlato, possono a mio giudizio restare nelle comunicazioni giornalistiche, risultano imprecise quando scrivo una circolare. Di certo la sineddoche che porta a scrivere “licei” invece dell’omnicomprensivo “scuole superiori” è da evitare in quanto l’esclusione degli istituti tecnici e professionali è semplicemente svilente e, di conseguenza sgradevole. Laddove si utilizzi una figura retorica quale “la parte per il tutto”, dimenticandosi quelle che oggi sono minoranze, produce modi di pensare inaccettabili. La cosa peggiore, a mio giudizio, è pensare e scrivere, giornalisticamene, sempre e soltanto dei licei classici, massimamente frequentati dai giiornalisti, ma che rappresentano una minoranza nel panorama dell’offerta formativa.
Esistono altri termini sui quali mi piace esercitare il ruolo di linguista: “esame di Stato” e “dirigente scolastico”.
Per quel che riguarda il primo, nella vita delle nuove generazioni ne esistono due: quello posto al termine del primo ciclo di istruzione e quello posto al termine del secondo. Posto che come a suo tempo la scuola attualmente detta “secondaria” era tutta “media”, non trovo disdicevole trovare locuzioni che li distinguano, di conseguenza io trovo perfettamente legittimo chiamare “esame di Stato” il primo e “esame di maturità” il secondo, al netto del fatto che entrambi discendono da un principio costituzionale che pretende che al termine di un ciclo di studi, il titolo venga rilasciato da un “esame di Stato”. Beninteso, non trovo disdicevole usare questi vocaboli nel giornalismo e nel parlato, mentre dove occorra essere più formali, si scriverà ciò che si deve.
Per quel che riguarda la diatriba tra “preside” e “dirigente scolastico”, la trovo di segno opposto, ma simile, a quella tra “collaboratore scolastico” e “bidello”, quest’ultima assimilabile a quella tra “operatore ecologico” e “spazzino”. Penso che difficilmente estirperemo alcuni vocaboli, ma in qualche caso non ce n’é bisogno. “Preside” va benissimo. Che la legislazione sottesa abbia trasformato questa figura in quella che giuridicamente è definita in altre amministrazione “dirigente” è certamente rilevante sul piano delle cose che può fare una persona che rivesta questo ruolo, ma restano quelle che erano proprie del primo, tanto è vero che la locuzione non è ridotta a “dirigente” avendo l’attributo “scolastico” sempre appiccicata. Dovrebbe il vocabolario seguire tutte le evoluzioni normative? Mi pare eccessivo. Quindi è più chiaro, condiviso e rispettoso di un percorso storico, mantenere il nome precedente: preside. Nei verbali e nei timbri, nulla osta mettere “dirigente scolastico”.
In conclusione, in merito alle evoluzioni terminologiche, mi pare di poter dire che laddove ci siano motivazioni evolutive che potano i vocaboli ad evolversi e superare preconcetti, questi siano da preferirsi, altrimenti è inutile aderire ad un nuovismo di maniera. In alcuni casi, tuttavia, le connotazioni negative seguono culture diffuse. Ad esempio, nel caso della disabilità, quelli che un tempo venivano chiamati “minorati”, poi diventati “handicappati” e oggi “persone con disabilità” (o più sinteticamente “disabili”) continueranno ad essere negativizzati se non emergono culture dell’empatia, del diritto e della relazione diffuse. Laddove queste fossero vincenti e assimilate, bidelli e spazzini non avrebbero bisogno di cambiare nome e il cambio di nome ha solo lo scopo di dare un contributo all’induzione di cambiamenti di mentalità.
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