Famiglia

Considerazioni di uno Sconfitto

18 Ottobre 2015

Moreno Pisto, padre pendolare sulla tratta Milano-Montecatini, ci racconta di come una foto, o un’illustrazione, possa rendere definitivo un momento quasi banale. E di come le generazioni, pur in conflitto, hanno sempre un punto di contatto. Illustrazione: Taf Taf Tafarno

Eravamo nel cortile di casa, fine della scorsa estate. Lui mi ha chiesto come mi chiede sempre, papà mi prendi sulle spalle? Ginevra urlava se avevo chiuso la porta, stavamo andando a fare un giro di sabato o domenica mattina in centro a Pescia, il sole era perfetto, Agata era sul passeggino. Presi Orlando sulle spalle e gli dissi va’, facciamoci un selfie. Tirai fuori il cellulare, alzai il braccio destro e scattai. A caso.
Ginevra rigridò: hai chiuso la pooorta? Io le dissi di no, lei sicuramente mi avrà risposto ecco, come al solito devo fare tutto io qui. Mi rimisi il telefono in tasca e poi mentre eravamo in strada guardai la foto. Sbram.

La guardai e dissi madonna che bella. Ma allora non capii perché quella foto PER ME era così bella.
Non l’ho capito nemmeno dopo.
Non l’ho capito fino a quando Tafarno non mi ha mandato questa illustrazione.

 

Quella foto, e il ritratto di Taf, sono importanti perché in un rapporto tra padre e figlio l’iconografia ha un valore gigantesco che fino a ora avevo sottovalutato. È fondamentale. È una prova di felicità. E in quella foto, in quel ritratto, siamo io e lui, visti da noi, non da un altro fotografo o da un’altra persona. Io e lui che ci siamo autoritratti a caso. Nessun intermediario. Un momento, uno scatto e poi quando ci riguarderemo nei momenti difficili che verranno avremo quella foto, quel ritratto, a dirci: siamo stati felici, per quale ragione non dovremmo esserlo adesso?

Mi sono chiesto: io con mio padre che foto ho? Non me ne ricordo una. Noi forse non avevamo manco una macchina fotografica in casa ché mio padre delle foto non glien’è mai fregato granché, aveva altro a cui pensare

Quando penso al rapporto che ho con i miei figli mi torna sempre un’immagine: sono in redazione a Donna Moderna, i due figli di un mio collega entrano in ufficio, corrono incontro al padre seduto alla mia destra e – urlando papà! – lo abbracciano. Anni dopo quello stesso collega l’ho rivisto per un aperitivo e mi ha raccontato che col figlio non andava per niente bene, stavano attraversando un periodo pesantissimo. E io gli ho chiesto: cazzo, ti avevo lasciato a loro che ti correvano incontro e ti ritrovo in guerra. Dov’è, dov’è il punto di rottura? La risposta era complessa. Ma ora capisco che una foto di quel genere è importante perché il punto di rottura e i periodi difficili arriveranno, non mancheranno, ma potremmo dire io e Orlando: vedi? fanculo tutto.

Allora mi sono chiesto: io con mio padre che foto ho? Non me ne ricordo una. Erano tempi in cui i telefonini non esistevano, e noi forse non avevamo manco una macchina fotografica in casa ché mio padre delle foto non glien’è mai fregato granché, aveva altro a cui pensare, me, le mie sorelle, lo stipendio per farci crescere lontano da casa, tutti gli stress lavorativi i bocconi amari che lui affrontava e buttava giù e che io allora non potevo vedere.

E allora mi sono chiesto: se io avessi avuto in casa e avessi visto qualche foto di me e lui abbracciati sarebbe cambiato qualcosa nel rapporto tra me e lui? Il nostro rapporto sarebbe diverso?

Mi viene in mente Rocky che mette la foto di Drago sullo specchio per non distrarsi mai dal suo obiettivo: batterlo. Mi viene in mente Mourinho quando ha raccontato che negli spogliatoi dell’Inter del triplete appendeva le foto degli avversari o scriveva delle frasi sui muri per tenere i giocatori in tensione, per far sì che non pensassero ad altro che a quello, per creare nella loro testa un’ossessione. Vincere. Perché una foto, un’immagine è potente. Cazzo, se lo è.

Io, a mio padre voglio bene nonostante tutti i difetti che ha, perché gli riconosco dei valori (l’onestà e la perseveranza su tutti) ma non mi ricordo un abbraccio con lui, non mi ricordo di avergli mai detto ti voglio bene, idem con mia madre, e solo adesso mi rendo conto del valore di un semplice abbraccio o di una parola scontata che scontata non lo è manco per niente. E ci sono stati dei momenti in cui a mio padre ho fatto una colpa dei tarli che mi ha trasmesso. Poi un giorno salutando Orlando dalla banchina della stazione per andare a prendere uno dei miei treni, quasi piangendo perché mi sentivo mancare a separarmene ancora una volta, come tutte le settimane, mi uscì fuori questa poesia (qui c’è tutta) che ho subito scritto sul mio iPhone

Padre, tu mi hai insegnato a non oltrepassare la linea gialla
(….) Sono sempre stato convinto che tu
Di me
Non avessi mai capito niente
Ma io cosa ho mai capito di te?

E poi chiudevo:

Non ci riuniremo mai
Non ci lasceremo mai
Troppi giorni non abbiamo parlato
Ho sempre preteso da te
Ho dato quel che ho dato
Io ho continuato a chiederti
Tu
Ti sei accontentato  

Gliel’ho regalata per i suoi 60 anni con la promessa di fare un viaggio insieme nei luoghi della sua infanzia; viaggio che non abbiamo ancora fatto. Non so se la poesia gli è piaciuta o se sono stato capace di trasmettergli quello che gli volevo dire. Non ne abbiamo più parlato. Ma volevo solo dirgli che se per anni mi sono sentito incompreso da lui, solo adesso ho capito io quanto cazzo fossero difficili e complesse le battaglie quotidiane e la vita e quante energie portano via. Ma io cosa ho mai capito di te?

Volevo solo dirgli che se per anni mi sono sentito incompreso da lui, solo adesso ho capito io quanto cazzo fossero difficili e complesse le battaglie quotidiane e la vita e quante energie portano via. Ma io cosa ho mai capito di te?

Questo Natale però mi ha detto che doveva darmi una cosa e mi ha lasciato sul tavolo un libro rilegato. Ho scritto questo, mi ha detto. Io ho immaginato il solito pippone del padre che scrive la propria storia e la racconta al figlio. Poi quella stessa sera nel letto ho cominciato a leggere. E mi sono sentito crollare. Lì dentro c’era sì la sua storia, ma era una storia che non avrei mai immaginato, di un dolore e di una dignità pazzesca. La sua storia mi ha lacerato, avrei voluto urlare. Il giorno dopo l’ho visto ma non sapendo come affrontare la situazione gli ho mentito dicendo che non avevo ancora cominciato a leggerlo. Non ce l’ho fatta. C’ho dovuto pensare ancora 24 ore prima di parlargliene e parlargliene male, velocemente, facendo le domande più superficiali. È una cosa così gigantesca che anche adesso, a mesi di distanza, dovremmo parlarne tutti i giorni. Ma al di là delle parole di circostanza non andiamo. Troppi giorni non abbiamo parlato. E con mia madre ancora peggio. Insieme della storia raccontata nel libro ne abbiamo parlato solo al telefono e quando l’ho sentita piangere non sono riuscito ad andare avanti. E non so se ne riparleremo nemmeno dopo che leggeranno questo pezzo. E forse va bene così.

Una volta Gabriele Romagnoli a Paolo Sorrentino ha scritto: «Se avessi avuto un fratello non avrei voluto un fratello come te, avrei voluto te». Io oggi glielo scrivo a loro: «Se non avessi avuto voi come genitori non avrei voluto genitori come voi, avrei voluto voi».

Perché loro, con i loro silenzi, mi hanno insegnato che ai miei figli invece queste cose oltre che a scrivergliele gliele devo dire. Ché le parole sono come le foto, potenti, e ripeterle è un modo per appenderle al muro. E allora li bacio continuamente, li tocco, i miei figli, e loro ora cominciano a dirmi basta, ma io insisto e tutte le volte che ho voglia di baciarli lo faccio perché l’esistenza sa essere bastarda e poi io penso alla morte continuamente e voglio che ogni momento con loro sia goduto, vissuto e nonostante questo non sempre ci riesco. E ogni volta che mi viene da dirgli ti amo, mi manchi, ti voglio bene, glielo dico. E quando sento rispondermi: ti amo, mi manchi, ti voglio bene, mi sento cadere gli zigomi.

Le foto, quella foto, e ora quell’illustrazione, sono lì a ricordarmi, a ricordare a me e a mio figlio, a me e ai miei figli, più di altro, tutto questo. Appena li ho visti gliel’ho spiegato. Sono piccoli, non hanno capito tutto. Ma è stata la prima volta che l’ho fatto e non sarà l’ultima.

Poi sono andato da mio padre e da mia madre e ho fatto un selfie anche con loro.

Non ci riuniremo mai. Non ci lasceremo mai.

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