Famiglia
Certi giorni sono tutti i giorni
In questo giorno, tre anni fa, mio padre ci lasciava. Ho impiegato i primi due a dimenticare le brutture della malattia, cosa significa per una persona che è cerebralmente attivo spegnersi lentamente come una candela che ha resistito ai venti della vita, che si è aggrappato a tutta la sua forza per non demordere ma che ha dovuto arrendersi alla lentezza di un cuore malato che pompava poco e che irrorava male anche il suo cervello. Quello che metteva alla prova per testarne la tenuta ricordando vecchie poesie, nei momenti in cui ha perso molta della sua lucidità il fatto che riconoscesse gli attori di un film costituiva per noi la speranza che la sua lotta per rimanere lucido la stesse vincendo. Ma il suo corpo, insieme alla sua mente, dicevano che ogni giorno era sempre meno abile, sempre più bisognoso di cure, sempre più dipendente dall’aiuto degli altri.
Io e mio padre eravamo troppo simili per non arrivare mai ad uno scontro. Da piccole ha costituito per noi, me e mia sorella, un mammo, giocava molto con noi, mentre in adolescenza la sua severità ci teneva un po’ lontano dalla vita che fluiva, si usciva poco, solo per andare a studiare a casa di una compagna, il sabato se si andava a fare una passeggiata, si rientrava prima dell’età abitualmente consentita alle altre ragazze della mia età. La mia adolescenza è trascorsa tra la voglia di far bene a scuola, lo studio impegnato, la voglia di riconoscimento da parte dei miei genitori, di mio padre soprattutto, e la ribellione di chi si vede negare diritti che pensa di dover acquisire a quell’età, ad esempio poter andare in discoteca. Le prime le ho viste all’età di diciotto anni quando le mie amiche passarono alla maggior età. Un tempo, quello della maggior età, che per me fu prolungato: durò due anni. Mia sorella ha meno di un anno meno di me e quando le sue amiche festeggiarono, io ero tra le invitate.
Mio padre è sempre stata una mia figura di riferimento.
Da piccola ho imparato a portare la bici a due ruote perché me lo ha insegnato lui, con lui abbiamo scattato le prime polaroid che ci ritraevano in pose affettuose, solitamente mentre giocavamo. Le mura della mia stanza hanno conosciute il rimbalzo della palla da tennis durante tutti gli anni in cui ci esercitavamo a giocare, l’acquisto di un tavolo di ping pong tenuto nella casa a mare conobbe lo stesso successo. Io perdevo sempre, duravo nel palleggio, ma ero spesso in situazione di difesa, non sapevo schiacciare. Il tavolo da ping pong sostituì un vecchio biliardo che anni prima mi aveva appassionata, tanto da condividere questa passione non solo con lui, ma andando a sfidare altri ragazzi che avevano ville nei viali accanto. Ragazzi, perché con mio padre ovviamente facevo giochi a cui si dedicavano per lo più gli uomini.
Quando non riuscivo a capire qualcosa riguardante lo studio, era a lui che mi rivolgevo. Pur insegnando matematica, sapeva un po’ di tutto, forse perché leggeva molto. Quando ho avuto il mio passaggio di ruolo nella scuola secondaria di secondo grado, avevo delle classi di marketing e finanza in cui insegnare francese. Certi concetti mi erano completamente astrusi, lontani dalla mia formazione. Se non ci fosse stato lui che mi ha spiegato i rudimenti dell’economia aziendale, non avrei potuto cavarmela. Mi sarei dovuta rivolgere ad un professore privato. Per me lui è stato un padre, un professore, una persona da cui ho ereditato il gusto per il sapere, la voglia di imparare.
Forse il modo di concepire la scuola l’ho ereditato da lui che non era solo il dirigente scolastico, ma il professore di matematica che amava avere un rapporto diretto coi ragazzi. Sebbene incarnasse la razionalità di chi deve dirigere una scuola, non ha mai dimenticato l’estemporaneità di chi, vedendo una bella giornata di sole e gli alunni stanchi, organizzava una partita di pallavolo con i ragazzi a cui partecipava anche lui. La scuola che dirigeva era una sorta di casa, aveva un rapporto diretto con le sue insegnanti con cui era solito intrattenersi in lunghe conversazioni, con alcune più che con altre. Era un parlatore, non era facile stare ad ascoltarlo, ma a ascoltarlo imparavi sempre qualcosa.
A volte raccontava dei tempi in cui, nell’immediato dopoguerra, c’era una città da ricostruire, una città ridotta alla fame che mostrava la sua povertà quando, varcato l’uscio della porta, entrava nelle case a portare il pane a chi lo aveva ordinato. Un pasto povero, come erano povere le tasche di chi l’acquistava, ma che viveva nella speranza che una volta che il peggio era passato, ci si poteva aspettare solo la rinnovata capacità di rialzarsi in piedi e vivere una vita nuovamente più serena, dove la ripresa economica avrebbe consentito di poter allentare quella cinghia che teneva stretta ai fianchi i pantaloni che spesso per l’eccessiva magrezza scendevano giù. Altre volte parlava di argomenti pertinenti la scuola, dell’andamento scolastico degli alunni, ma anche di problemi e vicende familiari che riguardavano la sua vita o quella dei suoi dipendenti. Riconosceva il valore della persona dei suoi dipendenti, a tutti era legato di stima che era contraccambiata.
A casa parlava spesso del suo passato, di quanti chilometri macinava da ragazzo quando ci si spostava per lo più a piedi, delle avventure con amici vissute per strada. La strada è stata lo scenario costante di parte della sua vita, quella che ti fa respirare la realtà di tempi in cui si viveva accontentandosi di poco.
Nella vita da adulto, ha sempre creduto che acquisire la possibilità di istruirsi significava acquisire quell’indipendenza economica che consente a una donna di poter scegliere la sua strada senza pensare di sentirsi appagata per forza nel matrimonio, di poter viaggiare, di essere libera dalla costrizioni di essere intrappolata in un rapporto funzionale al suo mantenimento. Per un uomo, istruirsi significava, invece, ottenere un lavoro che gli consentisse di poter realizzare il progetto di metter su famiglia, acquistare una casa senza dover elemosinare da un capo un avanzamento di carriera, senza che l’essere umano dovesse porsi nella posizione di umiliazione per poter ottenere ciò che avrebbe ottenuto regolarmente in una società più equa. Non ha mai speculato pagando male i suoi insegnanti, perché speculare per lui era sintomatico della negazione dei valori in cui credeva.
Sebbene fosse una persona generosa, sapeva elargire con giustizia, ho comprato con i primi soldi guadagnati la mia prima auto. Insegnava il valore della fatica nel conquistarsi un bene materiale, lui mi ha dato ciò che non aveva un prezzo: l’educazione, l’istruzione, spettava a me mettere a frutto ciò che mi veniva offerto. Mi ha insegnato il valore del sacrificio, quello dell’amicizia che ha un valore che trascende la pura convenienza. Ho avuto amici di ogni estrazione sociale, lo stesso dicasi per gli amori. Mio padre mi ha insegnato a guardare la persona più del titolo o di ciò che possedeva, ha trattato come figlio chi amavo pur provenendo da un’estrazione familiare modesta.
Avevo alle elementari un’insegnante antesignana di tutte le teorie succedutesi sul benessere della psiche e del corpo: ci insegnava il gusto di inventare storie partendo da immagini, ci portava in giardino a fare gare di velocità nella corsa per poter afferrare un fazzoletto e dare la risposta esatta. Io ero una schiappa nella velocità, ero tutto tranne che sportiva, ma pur di rispondere correvo come una forsennata. Le ore di inglese settimanali le amavo, nel periodo natalizio ancor di più. Ho imparato che ea bambina, a scuola, accompagnata dalla strumentazione musicale messa a disposizione da mio zio, “We Are the World”. Mi emozionava il pensiero che il ricavato di quella canzone fosse devoluto ai Paesi poveri, pensavo che anche i bambini diseredati forse grazie a quelle donazioni potessero dimenticare per un giorno la povertà.
Provengo da questa scuola, una scuola dove ogni attività era finalizzata al raggiungimento di obiettivi che non riguardavano solo il sapere: imparare a leggere, scrivere, a comporre storie, risolvere problemi, la storia e la geografia, tutto era finalizzato a formare un uomo migliore. Capace di emozionarsi, spendere le proprie energie per il bene comune, emozionarsi per una causa. Dove l’armonia significava cercare di dare il meglio di sé nella prospettiva di essere utile anche all’altro.
Oggi mio padre non c’è più, ma restano le sue idee, il suo spirito che vive in me, il suo riflesso che vedo nelle cose o in certe persone che mi circondano. Il suo corpo non c’è, non sento la sua voce, non lo sento esultare per l’Inter che segna un goal, ma sento quell’alito che mi tiene calda nei momenti in cui nel mio cuore soffia un vento gelido.
In foto: Toka, Angela Di Finizio
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