America
Erin Go Bragh. Quando i migranti si ripresero la dignità
La storia prima di tutto.
1846-1848 guerra tra Messico e Stati Uniti. Durante quella guerra una parte dei militari irlandesi presenti nelle fila dell’esercito americano diserta e decide che la sua guerra non è quella per la conquista di un nuovo territorio e l’estensione degli Stati Uniti. Non è quella di partecipare a una violenza perché così si acquisisce il diritto a una cittadinanza o alla pari dignità. La sua guerra è per la giustizia e dunque diserta.
E’ la storia del battaglione San Patricios costituito da un gruppo di varie centinaia di soldati irlandesi immigrati che disertarono dalle file statunitensi per raggiungere l’esercito messicano. Non sono solo gli irlandesi a disertare, ci sono anche dei tedeschi,m degli italiani dei polacchi. In breve migranti, approdati negli Stati Uniti in cerca di libertà, in fuga dai propri oppressori e che improvvisamente percepiscono che la terra della libertà non è così “aperta”, comunque quella libertà non è per loro, non ne hanno diritto, a meno di smettere di essere se stessi. Dunque fuggono. La gran parte di loro va dall’altra parte. Molti furono uccisi nella battaglia di Churubusco. Mentre circa 100 furono catturati e impiccati come disertori. Tutti gridano Erin Go Brach (Irlanda per sempre). Sono le loro ultime perole.
Perché la patria nell’Ottocento, e forse nemmeno solo nell’Ottocento è quella ti chiede di eserci, anche se poi non mantiene le sue promesse e non ti riconosce. E’ il 27 agosto 1847.
“Due soldati presero Riley per le ascelle e lo trascinarono al centro della piazza. Lì accanto c’era un braciere pieno di carboni ardenti. E dentro un ferro per la marchiatura del bestiame. Sulla punta incandescente, una grande lettera D, iniziale di deserter”. Così Pino Cacucci nel suo “Quelli del san Patricio” descrive la scena del marchiatura del traditore.
Prima, Cacucci all’inizio Quelli del San Patricio è Riley, il comandante del Battaglione San Patricio, a parlare, ricordando anni dopo la marchiatura subita.
“Chi non conosce la mia storia – dice Riley – non può individuare due lettere D in questa devastazione di pelle bruciata e pustole che mi porto sulla faccia. Quando una folata di vento mi scosta i capelli e la barba incolta non basta a nascondere l’oltraggio, la gente pensa che sia stato il vaiolo, o il lupus, o qualche altra lurida malattia che comunque avrei preferito al marchio d’infamia che mi deturpa il volto. Marchiato a fuoco, come un manzo”.
La scena è quella che sintetizza l’immagine di copertina.
Quell’immagine la riprendo da Churubusco, graphic novel di Andrea Ferraris. Non è la scena madre di una storia, ma certo colpisce e dice molte cose del mito della libertà.
In forma diversa infatti, tanto Ferraris come Cacucci, riferendosi alla stessa guerra, alla stessa storia, ci dicono che in quella guerra vennero fuori molte cose, prima di tutto che la terra della libertà è un luogo in cui la libertà si raggiunge con difficoltà, segnata da forti venature di sopruso, di razzismo, di xenofobia.
La storia che Cacucci e Ferraris in forma diversa e ciascuno con il proprio codice narrativo provano, con successo, a comunicarci, corrisponde a un principio riflessivo molto importante, specie nell’epoca delle vite esemplari, quando la macchina comunicativa propone l’ identificazione con le storie di successo.
Dunque la storia è comprensibile soprattutto se si ricostruisce la vita dei ribelli, della loro rivolta del loro successo come della loro sconfitta e che ci deve interessare o che molto semplicemente è raccontabile proprio perché al centro non sta l’atto eroico, ma la scelta.
La storia del Battaglione San Patrizio non è la storia del gesto eroico, di eroi ne abbiamo più che a sufficienza tutti i giorni e sono figure ingombranti, invasive, comunque chiedono che tutti si annullino nella loro vita esemplare. La storia del Battaglione San Patrizio non è una storia di icone.
Le storie di cui ci parlano Ferraris e Cacucci non sono le vite dei santi. Al contrario quelle storie sono significative, soprattutto nelle loro contraddizioni, come storia della lenta consapevolezza della delusione, del la dura storia quotidiana di chi ci prova, del conflitto emozionale interiore, ma anche della determinazione di qualcuno che non vuol solo subire, ma riprendersi la propria vita.
La fine non èun premio e, infatti, non c’è nessun happy end. Anzi. Ma noi ci portiamo a casa una storia fino a ieri sconosciuta, di dignità. Una diugnità che sta nella rabbia, nella solitudine, ma anche nello struggimento della vita dei migranti. E nella loro rivolta e non solo nella loro debolezza.
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