Costume
Elogio dell’ignoranza
Ai culturalmente produttivi, attenti a quello che si dice e si scrive in giro da parte degli “intellettuali che contano” – e anche “su” gli intellettuali che contano – raffinati lettori di prosa e di poesia e sopraffini intenditori di musica, quello che sto per scrivere sembrerà una rozza provocazione. Nondimeno lo scriverò ugualmente. Con la certezza che da oggi cominceranno a considerarmi per quello che in effetti poi sono – uno scriba incolto e inelegante, un burino di provincia – ma con la speranza che la mia schiettezza possa guadagnarmi almeno il loro perdono. Anzi lo scrivo subito e in maniera brutale, per togliermi il pensiero: provo orrore per tutto quello che va sotto il nome di “attività culturale”. Non tanto perché ciò che si comprende in quella definizione non ha ormai nulla a che vedere con la cultura – a parte la parrucca che si ostina ad indossare. E questo sarebbe il meno, basterebbe astenersene, come chi ti scrive fa da parecchi anni. Ma l’inattività culturale non è antidoto sufficiente, perché c’è di più e di peggio. L’attività culturale, personificata da quei malefici e invasivi leprecauni che vanno sotto la denominazione di “operatori culturali”, è oggi lo strumento più efficace per la distorsione e la demolizione di tutto ciò che la cultura nel corso dei secoli è riuscita a costruire. Essa consiste, sostanzialmente, in festival di ogni genere, vernissage, cerimonie celebrative ed esequie solenni, il tutto intervallato da dibattiti e conferenze le più varie, letture di poesia, concertini, schitarrate e sviolinate. Il paniere, nel suo insieme, è il contributo più significativo e più letale a quel cannibalismo generalizzato dell’informazione a cui ho ho già accennato. Ne è, si può dire, la punta di diamante. Nel corso degli ultimi decenni, grazie alla divulgazione capillare e all’indottrinamento porta a porta, l’utente è stato addestrato a reagire come i cani di Pavlov a tutto ciò che reca l’etichetta istituzionale di “artistico” e di “culturale”, ignorando invece ciò che non ne beneficia. Questo lo esime dal pensare la “cultura” in proprio offrendogli però, gratis, l’opportunità di immaginarsi bastevolmente – e talvolta addirittura esageratamente – colto. Espropriato di un cervello autonomo sul quale far conto, gli è offerta la comoda opportunità di avvalersi dell’expertise di recensori stipendiati che ne indirizzano benevolmente le tendenze. Non ha troppa importanza, in fondo, che quelle recensioni siano positive o apologetiche – per quanto questo faccia impennare talvolta la lancetta dell’indice di gradimento del prodotto, come sanno perfettamente gli editori che difatti si incensano da soli. Perfino una stroncatura, se praticata con le modalità dovute, può andar bene. Importa soprattutto che il dato prodotto o personaggio venga considerato degno di una recensione, cioè membro effettivo del club della cultura. La controprova di questo andazzo si ha nel più sprezzante blasone di cui l’utente medio gratifica colui che ritiene meritevole di disprezzo, che non consiste in un giudizio di merito – del quale, del resto, sarebbe del tutto incapace – ma nella constatazione che quel soggetto non è abbastanza noto: “chi lo conosce?” è, per lui, l’epitaffio definitivo…al quale si aggiungono i corollari “ma cos’ha pubblicato?”, “ma con chi ha pubblicato?” ecc. Così la mezza cultura, non più come un tempo appannaggio esclusivo dell’insegnante che legge i romanzi, dell’impiegato di concetto col pallino della poesia e del notaio versato nella storia locale, è diventata la mecca dell’informazione. Ad essa si abbeverano le moltitudini, al punto che è ormai quasi impossibile non imbattersi quotidianamente in uomini e donne “di cultura”: nei limiti, ovviamente, di ciò che che consente quella “attività culturale” instancabile di cui dicevo prima. Da tutto questo deriva la mia profonda preoccupazione circa gli spaventosi effetti che la “cultura”, nella sua veste attuale – ma, ahimè, trionfante – può produrre. E la mia propensione per una modesta ma tenace ignoranza.
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