Macroeconomia
E se gli imprenditori del 2050 fossero gli immigrati di oggi?
Houllebecq ha pubblicato un libro che ha fatto discutere immaginando un immigrato alla guida del governo francese. Ma le immagini che escono dal video in questi giorni, ed il contrasto con i nostri salotti, suggeriscono che quella trama in realtà è molto meno provocatoria di quanto avrebbe potuto essere. Proviamo solo a pensare al contrasto tra la nostra bassa crescita, le nostre preoccupazioni per la ripresina che deve venire sempre dagli altri, e la loro forza muta, non solo forza di uomini, ma anche di donne e bambini che strisciano sotto il filo spinato come marines in esercitazione. E vedendo la loro lotta per la vita ci viene in mente di guardare il nostro album di famiglia, e lì rivediamo gente con la stessa foga e impeto, con la stessa forza di vivere che viene dalla disperazione. Ci viene in mente una teoria, o anche solo una congettura: che ci sia un legame tra quelle facce e lo spirito imprenditoriale del nostro boom economico passato? E se questo legame c’è, se quello spirito ha generato quella nostra classe di piccoli imprenditori che ancora oggi continuano a lottare ogni giorno per rimanere a galla, allora gli immigrati di oggi potranno essere il tessuto imprenditoriale di domani.
La mia congettura potrebbe partire da un intervento di Edmund Phelps che il mio amico Marcello Esposito ha recentemente condiviso sulla rete. L’argomento centrale era l’incapacità del nostro attuale sistema economico e sociale di generare innovazione e crescita, e l’incapacità dell’economia politica di rappresentarle. A livello intuitivo l’idea è che nella nostra economia politica ci sono funzioni di produzione di beni e servizi (con qualche difficoltà, se non ricordo male, a trattare i servizi), ma non ci sono funzioni di produzione di idee. Poiché non ci sono idee non ci sono nuovi prodotti, e Phelps riconosce che nell’economia politica per cui egli ha ottenuto il Nobel gli agenti sono automi che producono sempre la stessa cosa. Ci vorrebbe invece una funzione di produzione di idee, che dovrebbe funzionare prendendo come input capitale umano, istituzioni e valori, e che dovrebbe generare nuovi prodotti e nuove funzioni di produzione in quella che Phelps definisce “flourishing economy”, un’economia florida e fiorente.
A questa descrizione di economia fiorente, a confronto con quella deflorata in cui viviamo, aggiungerei due considerazioni che possono spiegare anche perché, se pure una funzione di produzione delle idee esistesse, le idee sarebbero confinate a rimanere nella caverna della nostra mente, invece che trasformarsi in nuovi prodotti. Per la prima, ognuno di noi si chieda perché non lascia tutto per fare l’imprenditore. Oltre alle considerazioni di Phelps, che riguardano i valori, consideriamo come svilupperebbe un’iniziativa imprenditoriale una persona istruita della nostra generazione. Scriveremmo un “business plan”, e misureremmo il rendimento atteso del nostro investimento, il premio al rischio, e poi calcoleremmo la perdita di capitale in caso di eventi estremi, e utilizzeremmo la teoria delle opzioni per valutare il costo di abbandono dell’investimento. Poi, poiché siamo gente informata, confronteremmo l’investimento con un puro investimento finanziario, da cui possiamo uscire in ogni momento. Alla fine, a meno che non abbiamo per le mani un’idea della stessa portata innovativa del teletrasporto, il rendimento atteso ed il rischio non saranno sufficienti a farci intraprendere l’impresa. In altre parole, siamo così sofisticati nella misurazione dei ritorni attesi e dei rischi che la nostra valutazione di questi rischi è più forte e ci prende più tempo che sviluppare l’idea. Siamo così esperti dell’arte del mare che non osiamo lasciare la terra ferma. E anche se osiamo, le banche ci riportano subito al dovere di fare i conti.
Per la seconda considerazione, invece, guardiamo indietro ai nostri padri, e a quelli tra loro che hanno osato costruire qualcosa. Io guardo indietro a mia madre, e alla sua iniziativa imprenditoriale. Altro che “animal spirit”: rivedo un animale che dopo un’infanzia a badare altri animali si è lanciata nell’impresa di fondare un’impresa con la stessa consapevolezza, e con la stessa foga, più che spirito, di uno splendido animale. E come lei, gli imprenditori di piccole e medie imprese hanno affrontato il mercato con la stessa forza con cui gli gnù della savana si tuffano nei fiumi in piena per raggiungere i pascoli dopo la stagione delle piogge. E molti di loro, insieme a mia madre, portati via dalla corrente della sfortuna. Niente business plan, niente calcoli, e niente paura: solo ventre a terra e testa bassa. Il loro DNA è stato forgiato dalla loro vita. Ognuno di noi ha avuto in famiglia qualche parente che è tornato a piedi dalla Russia, dalla Germania o dall’Albania, con lo stesso spirito degli immigrati siriani di oggi. L’immagine di profughi che si lanciano nei vagoni dei treni dai finestrini ci danno un chiaro senso di “dejà vu” dei giovani con le valigie di cartone: giuro di averne visto uno, in un vecchio pezzo di televisione in bianco e nero, scavalcare il finestrino nello stesso modo. Tutta gente con una smisurata e disperata capacità di sopportare il rischio. E ricordo di aver visto la stessa foga anche tra i tedeschi dell’est che migravano ad est nei week-end un mese prima della caduta del muro di Berlino.
In conclusione, quando la violenza dell’onda si sarà placata, rimarrà un nuovo humus imprenditoriale, il nostro DNA sarà arricchito, e riprenderemo a crescere. Riprenderanno a crescere, perché quelli della mia generazione non lo vedranno. Ma, com’è quella perla di saggezza che ormai è tanto dissonante con la nostra classe politica da aver preso il sapore rancido del luogo comune? Il politico guarda alle prossime elezioni e lo statista alle prossime generazioni? Spiace ammetterlo, ma l’unico comportamento da statista che abbiamo visto in questi giorni è stato di Angela Merkel. E chissà che non abbia a che fare con la mia congettura.
Devi fare login per commentare
Accedi