Società

Don Milani: le “Esperienze pastorali” e la critica del “populismo”

29 Giugno 2019

Il termine “popolo”, con il suo correlato di “populismo”, è divenuto, nell’ultimo decennio, un termine conteso del dibattito politico. Nei commenti al voto della Brexit, all’elezione di Trump, al successo elettorale della Lega, tutti eventi nei quali il fattore determinante è stato l’orientamento elettorale dei ceti popolari, le posizioni degli osservatori vanno dall’estremo di coloro che danno la colpa al cosmopolitismo delle élites, incapaci di ascoltare la sensibilità popolare rispetto a questioni come l’immigrazione fino all’estremo opposto, di chi vede la causa di tutto nelle “fake news”. Grande è la confusione sotto il cielo.

Oggi, solitamente, l’evocazione del “popolo” richiama la volontà di dar voce a sentimenti , bisogni e paure espressione del corpo profondo della società, in opposizione all’intellettualismo ed all’autoreferenzialità (veri o presunti) delle classi dirigenti. In passato, il “populismo”, in riferimento alla storia culturale italiana, stava ad indicare qualcosa di abbastanza diverso, anche se per nulla avulso – credo – rispetto al dibattito corrente, ovvero la spinta degli intellettuali italiani ad innalzare il popolo a protagonista e a destinatario ideale delle loro opere.

Tuttavia, l’istanza della necessità di ”andare al popolo”, ricorrente nella storia degli intellettuali, e cruciale nella storia letteraria del secondo dopoguerra in Italia, ha sempre nascosto grandi rischi. Il principale è quello del paternalismo. Come dice Asor Rosa, in Scrittori e popolo, “l’intellettuale va verso il popolo, ma il più delle volte, prima ancora di raggiungerlo concretamente e seriamente, lo trasforma in mito, in immagine rovesciata di sé”. Allora, “popolo” diviene un concetto generico che funge da copertura ad appelli morali e a posizioni etico-politiche precostituite. La natura “popolare” del discorso diviene legittimazione di un “dover essere” che di popolare non ha nulla, perché appartiene al punto di vista intellettuale sul mondo. Il parlare in nome del popolo nasconde quasi sempre la volontà di indicare cosa “è bene per il popolo” anche se nulla ha a che vedere con le condizioni di esistenza e i reali bisogni del popolo stesso.

Le Esperienze pastorali  di Don Milani, nella distanza storica dei 60 anni che ci separano da esse (sono state pubblicate nel 1957, e subito ritirate dal mercato a causa della censura della Curia fiorentina) non forniscono sicuramente la “ricetta” ai dilemmi laceranti del nostro presente, ma, senza dubbio aiutano a ragionare su un punto nodale del problema, quello del “punto di vista” o della “strategia” discorsiva e pratica di fronte all’”urto” tra culture e concezioni del mondo e della vita estremamente dissimili. Si tratta di un libro i cui limiti furono rilevati, a distanza di anni, dallo stesso autore (come riporta la testimonianza di Adele Corradi, in Non so se don Lorenzo) ma che ha il merito di essere una “storia vera”, come dice il titolo stesso.

Don Milani non nega mai, sin dall’inizio, la consapevolezza che il suo rapporto col “popolo”, nella fattispecie i parrocchiani di San Donato di Calenzano, sarà necessariamente un rapporto di scontro. Parla malissimo del popolo che avrebbe dovuto contribuire a guidare, a partire dal 1947, in qualità di cappellano. Dimostra, con sguardo da sociologo, mediante statistiche, grafici, resoconti di fatti e situazioni vissute  il prevalere, tra gli operai e i contadini di S. Donato,  di una concezione strumentale e opportunistica della fede cattolica: si partecipa alle funzioni soprattutto durante le feste, per farsi vedere dagli altri e per avere degli incontri sociali. Nella prima comunione ciò che diviene preminente è la “gara” per chi riesce a fare i regali più costosi mostrando agli altri  uno “status” e un tenore di vita superiore a quello che si è realmente in grado di mantenere.

Nelle Esperienze pastorali sono sferzanti le critiche al cinema, alla televisione e allo sport come canali del mantenimento di uno stato di sottomissione culturale del popolo mediante un linguaggio che privilegia unicamente una comunicazione di tipo affettivo e sentimentale, deprimendo la riflessione e il senso critico. Lo scontro acquisisce anche un carattere molto concreto quando don Milani, dopo aver accettato per alcuni anni il compromesso tra la sua “scuola popolare” e le dinamiche sportivo-ricreative dell’oratorio, decide di gettare nel pozzo le attrezzature da ping-pong, provocando ovviamente l’allontanamento di una parte dei giovani frequentatori della parrocchia.

Lo stesso rigore critico, la stessa coerenza etica e intellettuale che gli impediscono di trattare con benevola condiscendenza la subordinazione passiva dei suoi parrocchiani all’etica borghese del consumo, che gli impediscono di accettare la rassegnazione e il fatalismo del suo popolo, lo portano ad una diagnosi politica piuttosto precisa e tutt’altro che scontata: la rassegnazione dei poveri, ovvero del popolo, non è semplicemente frutto dell’ ignoranza, ma il prodotto della natura classista della cultura. “Ma i libri – dice don Milani -, i programmi, l’impostazione culturale del mondo sono espressione di un’unica classe sociale e non certo di quella dei poveri. Ne rispecchiano l’ideologia e le esigenze, l’ambiente, il classismo e spesso anche gli interessi”. E’ notevole come, alla metà degli anni ’50, quando la sociologia dell’educazione non si era ancora affermata come una scienza sociale riconosciuta, Don Milani individui i meccanismi della dominazione socioculturale, ma senza i mezzi accademici che potevano avere Bourdieu e Passeron e Basil Bernstein nei primi anni ’60.

La lotta che ne consegue è l’impegno per la scuola popolare, una scuola “di classe” destinata non a tutti, ma soltanto ai figli di contadini ed operai, nella quale l’appropriazione della cultura – la stessa cultura che prima era un mezzo di dominazione -, condotta mediante uno sforzo cooperativo, sistematico e rigoroso, avrebbe determinato un effetto di emancipazione.

C’è, in don Milani, una opposizione dialettica tutt’altro che dolce riguardo il rapporto col “popolo”. Dice dei giovani frequentatori della scuola popolare di S. Donato: “Ho disprezzato le loro passioni, ho cercato e rispolverato solo quei doni che dovevano esserci e che c’erano”. Se combatte le “passioni”, ovvero le abitudini e gli atteggiamenti correnti del popolo, don Milani dice anche di aver fede “nella vocazione storica dei poveri a diventare classe dirigente”. Che cosa ha reso possibile uno sbocco positivo di questa estrema opposizione? Il racconto del giovane operaio Giordano, tra i primissimi allievi della scuola popolare di don Milani, sin dal 1947, spiega:  “Ora, una sera incontrai don Lorenzo e mi disse: “Per difendersi gli operai da tutti, anche dai preti, ci vuole istruzione”.  Io gli risposi che mi garbava anche a me, perché in officina c’è uno che ha fatto l’avviamento e ci cheta tutti, e così si fissò che andavo a scuola dopo cena”(…) “Insomma io ci feci amicizia, perché lui faceva le parti giuste ed era contro tutti e spregiava i giornali dei preti e l’Unità allo stesso modo e ci insegnava a pensare con la nostra testa”.

Che cosa insegna, dunque, don Milani, al nostro tempo, nella distanza storica della trasformazione economica e sociale che, senza dubbio, oggi ci impedisce di fare esattamente come lui? Innanzitutto, che un discorso e una prassi “popolare”, o per meglio dire, dalla parte delle classi subalterne, non deve essere necessariamente “populista”.  Che, ad esempio, se l’idea che i migranti rubino il lavoro agli italiani trova consenso, ciò non significa che debba essere assecondata. Che non sono certo i sondaggi d’opinione ciò che potrebbe rendere possibile una relazione tra quella parte di società impegnata e acculturata che oggi, minoritaria, difende principi di natura universale come il diritto d’asilo e chi sembra, la maggioranza, esservi indifferente, se non ostile.

 

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