Religione
Don Mario, uno di loro
Martedì 8 giugno è morto a Varese, a 92 anni, don Mario Riboldi, prete milanese, uno degli ultimi eredi di una lunga storia di preti divenuti “uno di loro” (il titolo dell’autobiografia di don Sirio Politi, il primo prete operaio in Italia). Una storia priva di eredi e destinata a finire, ma che ha scritto pagine tanto sconosciute, quanto straordinarie, di vita cristiana. Figli spirituali di quel Charles de Foucauld, fratello dei tuareg del deserto e di tutti gli ultimi della terra.
Una vita intera quella di don Mario a girare in Italia e in Europa per campi rom con una roulotte come casa e con un compagno di avventure vicino, Padre Luigi. Negli ultimi anni era passato ad un camper spelacchiato, ma lo mostrava con qualche ritrosia, quasi fosse un lusso che non doveva permettersi.
La sua avventura ebbe inizio nei primi anni cinquanta, ben prima della rivoluzione e delle aperture del Vaticano II . Aveva conosciuto i rom e i sinti e la loro vita, ma un episodio segnò per sempre la sua condizione.
Nel 1961 arrivò a Milano la regina Elisabetta. I poliziotti settimane prima girarono Milano per “ripulirla” da presenze sgradite. I rom con le loro roulotte invasero il piccolo paesino dove don Mario era parroco e che ormai consideravano un amico, causando l’indignazione della popolazione. Don Mario comprese che era indispensabile una scelta di campo, non poteva più rimandare il “salto del muro” (immagine tanto in voga tra i preti operai). Andò dal vescovo di allora, il cardinale Giovanni Battista Montini, e ottenne di diventare “il prete dei rom”.
Montini poi divenne papa, Paolo VI, e a lui don Mario portò tutti i suoi fratelli in uno storico incontro a Pomezia il 26 settembre 1965.
Ad Avvenire avrebbe un giorno spiegato la sua vita con queste parole: “Mica per fare l’operatore sociale, ma solo perché sono un prete che si è sentito chiamato a portare il Vangelo fra chi, troppo a lungo, troppo spesso, è stato ignorato dai cattolici, a volte ancora così chiusi nelle loro parrocchie…”. Sempre consapevole che il vero e unico statuto di ogni credente è solo quello del discepolo: “Non per fare il maestro: ma per essere scolaro, con loro, alla scuola della Parola che salva”.
Gli incontri che si facevano con lui si concludevano sempre nello stesso modo: il regalo di copie del vangelo in lingua romanes che lui stesso aveva realizzato e copie della biografia di Zefirino Gimenez Malla, il primo santo gitano. Lui stesso si era adoperato per la sua canonizzazione. E ne aveva fatto una ragione della sua vita: “questo solo desidero: scovare altri Zefirino che Dio suscita in mezzo ai rom”.
Nel 1995 si battè strenuamente al Sinodo diocesano di Milano perché nel documento finale il capitolo sui rom fosse inserito non alla voce “carità”, ma nel capitolo dedicato all’evangelizzazione. E così è stato.
Nulla come l’assistenzialismo o l’elemosina era così lontano dal suo spirito e dalla sua missione.
Lo ricordo ad un funerale nel 2008 in una chiesa di Sesto san Giovanni. Predicò davanti alla bara di un giovane rom morto nel rogo della sua barachina, l’ennesima vittima della precarietà e degli stenti del campo abusivo che allora sorgeva presso le rovine della Falck ormai dismessa.
Predicava con un fluente romanes che per noi gagi era incomprensibile, ma non per tutti gli altri rom che lo ascoltavano. Schiantati da quella tragedia, ma ben consapevoli del loro destino di sofferenza.
E’ difficilissimo imparare il romanes perché i rom, diffidenti per secoli di stigma, lo custodiscono come un segreto a loro difesa. Don Mario aveva vinto questa loro ritrosia secolare.
Era davvero “uno di loro”.
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