Società
Disneyland senza frontiere
Si fa presto a dire turismo. L’attuale ministra, che di turismo dice di intendersene, e lo rivendica con orgoglio, al momento crediamo abbia altre gatte da pelare. La polvere accumulata sotto il tappeto ha pur sempre un limite e alla fine vien fuori. Peggio che mai quando i tappeti si scuotono, un polverone tossico. Speriamo che i giudici indaghino in profondità prima che il Parlamento approvi altre leggi ad personam per difendere gli indifendibili, perché potrebbe accadere di nuovo.
Ma vediamo un po’ cosa vuol dire turismo oggi, osservando semplicemente ciò che accade. Una volta turismo e viaggio coincidevano. Il Grand Tour o altri percorsi di visite nel mondo erano delle tappe fondamentali nella crescita di un individuo: conoscere i grandi siti archeologici, i musei più importanti, le opere che i grandi del passato hanno lasciato in eredità, gli usi e i costumi di altra gente, gli idiomi, il rispetto. Era un’esplorazione da cui si traeva insegnamento e si spronavano i propri discendenti a compierne di simili, all’età giusta.
È necessario fare il confronto coi nostri tempi, dove il concetto di viaggio (e di turismo) è ben diverso. In questi tempi moderni, attraverso la tecnologia, si sceglie da lontano un posto, ci si vuol andare a tutti i costi, si pretende che la cosa che si è vista sul dépliant, cartaceo o virtuale, sia assolutamente uguale a ciò che è millantato e si vuol vivere “un’experience indimenticabile”, come stuzzìga il sito internet del Twiga, noto resort santanchista.
Il principio che è stato elaborato e si è radicato, soprattutto in questi ultimi tempi, è: “io pago, io ho diritto a tutto”. Come in un parco giochi, devo provare le esperienze più estreme, pago per quello. Siccome ho pagato il biglietto per un museo, posso fare ciò che voglio delle opere d’arte che ci sono dentro, anche imbrattarle di vernice o altro, o incollarmici per protesta. Devo assolutamente farmi un selfie senza neanche dare un’occhiata all’opera. Oppure posso scriverci sopra le mie iniziali e quelle della mia amata o del mio amato dentro un cuore palpitante. La mania del graffito è plurisecolare, perfino a Pompei sono stati rinvenuti graffiti sui muri. Ma allora Pompei non era ancora un museo a cielo aperto.
Oggi il Colosseo (e pure Pompei) lo è e quindi non è una bella cosa immortalare i propri nomi sui muri dell’anfiteatro. Naturalmente per poi farsi il selfie della bravata, c’ero anch’io, sono stato proprio io a scriverlo. E i genitori della ragazza svizzera autrice dell’abbellimento sono stati assolutamente molestati dall’intervento della guida che rimproverava la ragazza. Che vuole questo? Noi siamo qui per divertirci.
Oppure la turista in Sardegna che si lamenta per aver preso una multa in sosta vietata, dicendo che ai turisti vanno fatti i ponti d’oro e non le contravvenzioni (per dei comportamenti che sono reati su tutto il territorio nazionale), perché “noi turisti vi diamo da mangiare”, senza neanche rendersi conto dell’insulto appena pronunciato.
È saltato il senso del limite delle proprie azioni, così come sono saltati i rapporti genitori/figli. Un genitore (in questo caso svizzero) con dignità si sarebbe scusato, innanzitutto perché in un paese ospite (paese che, in passato, fu discriminato a lungo dalla Svizzera, sedicente faro di civiltà e fogna dove tutti i soldi di mafiosi e trafficanti finiscono), e in secondo luogo perché il monumento è riconosciuto in tutto il mondo come una delle più importanti testimonianze archeologiche di un antico impero. Sempre lo stesso genitore, in altri tempi, avrebbe assestato un paio di manrovesci alla figliola cretina che pensava di aver compiuto una grande impresa. E la figliola cretina avrebbe chiesto scusa a sua volta e, forse, si sarebbe ricordata della sua stupidità per tutta la vita. Lo stesso genitore avrebbe chiesto alla guida turistica cosa si poteva fare per rimediare. Ma questo in un altro mondo che non esiste più.
Il Colosseo è mio, ho pagato per venire qui, lascio un sacco di soldi negli alberghi, nei ristoranti, nei negozi di souvenir, vorrete farmi incidere il mio nome e poi farmi scattare il selfie che mando in giro per il mondo per far vedere che sono stata qui, e guai a chi si oppone?
Questi sono, probabilmente, i meccanismi neuronali di molti turisti d’oggi, dove tutto è comprabile, e, in quanto comprabile, diventa mio.
I social, mezzi diabolici né buoni né cattivi, amplificano la realtà esistente, e quindi amplificano la stupidità. Siccome la stupidità è più diffusa dell’intelligenza e attecchisce meglio perché non necessita di riflessioni, ecco che i social diventano pericolosissimi.
Come canta Gabbani: “L’intelligenza è démodé risposte facili, dilemmi inutili”.
Un influencer che vuol farsi avanti senza scrupoli lo può fare colla massima facilità, facendo leva sulla cecità degli apostoli di social, approfittando della stupidità e manipolandola. Se Hitler o Mussolini avessero avuto a disposizione la tv e i social il mondo sarebbe stato assai diverso, oggi, e loro non avrebbero perso la guerra. Sarebbero riusciti a fare proseliti perfino oltre i confini dell’Asse. E forse ci sono riusciti instillando il consumismo, i bisogni indotti, nella nuova patria, gli USA.
D’altro canto così fanno oggi i politici, usando i social apparentemente in forma adolescenziale, perché i fruitori dei social sono in gran parte adolescenti reali o adolescenti di quarant’anni e più, fuori tempo massimo ma con uno spirito infantile assai marcato. A volte perché infantili lo sono gli stessi politici, come dimostrato nella saga del Papeete o nei selfie colle luganeghe dai Capitani coraggiosi. Ecco perché facebook, instagram, twitter o tiktok mi ripugnano. Tutti mi dicono che sono un matusa e io rispondo “per fortuna”. Poi mi guardo intorno e dico meno male che ne sto fuori, notando le devastazioni che provocano anche in persone che reputavo, in qualche modo, brillanti. Mi perderò sicuramente qualcosa, ma, alla fine, ne vale davvero la pena?
Non riesco però a capacitarmi di cosa resti, in conclusione, di quell’experience indimenticabile a tutte codeste masse di gente che viaggiano senza capire dove vanno, cosa vedono, cosa mangiano.
Se una volta, ai tempi dei miei genitori, il viaggio di nozze era a Roma oggi è d’uso andare nelle località più lontane possibili del pianeta (spesso anche le più costose) e in luoghi dove il resort per la luna di miele è come una bolla aliena caduta lì per caso. Mi chiedo cosa possa restare di una cartolina intercambiabile.
Il campeggio di lusso, il glamping, come lo auspicava sulle lave dell’Etna la Saint in what, fa parte di questa visione distorta del turismo. Briatore si arrabbia sempre perché vede, solo lui, il turismo ricco (quello che fa comodo a lui) discriminato e preso di mira. Ma in realtà nessuno vuol togliere a Briatore i suoi clienti riccastri.
È l’emulazione del riccastro che è dannosa, tutti vorrebbero essere come Briatore e comportarsi come lui, assimilando le proprie minchiate a quelle che il campione proferisce senza risaprmiarsi. Lui, probabilmente, senza pensarci due volte abbatterebbe una foresta per costruire un resort a dieci stelle o allestirebbe una Crazy Pizza nella sacrestia della Basilica di San Marco, se gli fosse permesso. Che male c’è? Queste costellazioni, che sono una vera e propria mania di questi nostri tempi dove dichiararsi poveri è un peccato mortale e dove chi è povero è perché vuole esserlo, sono costellazioni fittizie in un universo deformato dall’insanità mentale di questa gente. Perché la “normalità” non sono Briatore e la Saint in what, loro sono la perversione. Non perché siano ricchi, ma proprio assolutamente no, nessuno ce l’ha coi ricchi. Luchino Visconti era ricchissimo ma aveva buon gusto e, soprattutto, aveva un cervello. Loro sono solamente tasci. E sul concetto di tascio, che in sé possiede delle sfumature peggiori di quello del tamarro, ho scritto abbondantemente in passato.
E il turismo di massa che invade l’Europa, e soprattutto l’Italia, è estremamente tascio. È tascio perché non conosce limiti, come il tascio, appunto, a cui tutto sembra dovuto, speciale, amplificato da un egocentrismo senza frontiere: il Colosseo è mio e ci posso pure pisciare sopra, l’albergo non mi piace e lo distruggo, il buffet non è di mio gradimento perché le melanzane alla parmigiana non posso accoppiarle col cappuccino mentre la pizza coll’ananas è la migliore del mondo e nelle pizzerie italiane si trova raramente.
Per fortuna vado poco in giro e per fortuna sono disabile perché altrimenti quegli sganassoni che il padre avrebbe dovuto dare alla bambina svizzera del Colosseo glieli avrei assestati io. A lei e a lui. E sono sicuro che mi avrebbero seguito in diversi. Probabilmente stranieri.
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