Salute mentale
Disarmare i pregiudizi con le neuroscienze
Da qualche parte (credo su Repubblica) ho letto di un tale che ha dovuto fare un viaggio in taxi con i finestrini abbassati perché, secondo quanto riferito dal tassista, prima di lui era salito un “nero, e sa, non si sa mai con quest’Ebola in giro”. Ora, non mi soffermerò sull’Ebola-fobia, la spiega già in maniera molto chiara il Borowitz Report qui; mi concentrerò invece sulla più antica e letale malattia del pregiudizio, di cui il razzismo non è che un caso particolare.
Un anno fa, alla SISSA di Trieste, Elisabeth Phelps della New York University tenne una conferenza su neuroscienze e razzismo, dove presentò le sue ricerche al pubblico, tra cui l’allora ministra Cécile Kyenge. La conferenza venne ripresa e commentata (ad esempio qui e qui) anche perché cadeva ad una settimana di distanza dalla famigerata uscita dell’ex ministro Calderoli – a cui non darò spazio, tanto ce la ricordiamo tutti. Oggi non c’è più la signora Kyenge, ormai ex-ministro, ma ad alimentare le discussioni sull’argomento ci sono le epidemie, l’immigrazione, i fatti di Ferguson, Missouri, i matrimoni omosessuali, la disparità di genere, etc.
Ed è appena uscito su Nature Review Neuroscience un articolo di David Amodio, anche lui professore alla New York University, che fa al caso nostro per tornare a discutere di neuroscienze e pregiudizio (lo trovate qui).
Amodio distingue due concetti, sebbene strettamente correlati in quanto parte di un unico processo di giudizio: pregiudizio e stereotipo. Il pregiudizio viene definito come la disposizione d’animo nei confronti di una persona, formatasi considerando esclusivamente l’appartenenza della persona in esame ad un determinato gruppo (un’etnia, un genere, un orientamento sessuale, un partito politico, una tifoseria…). Il pregiudizio è caratterizzato da una forte componente emotiva e trova le sue basi neurali in quelle aree più antiche del nostro cervello, condivise con i rettili e i mammiferi inferiori e facenti parte del sistema limbico e dei gangli della base, sedi delle reazioni emotive e istintive. In questo caso specifico l’amigdala, una piccola ma complessa struttura sottocorticale coinvolta nel processamento degli stimoli paurosi e nei comportamenti di attacco-fuga, gioca un ruolo decisivo.
Molte ricerche, tra cui quelle pioneristiche di Phelps e colleghi, hanno dimostrato come l’amigdala sia maggiormente attiva quando un gruppo, ad esempio bianchi americani, che definiamo ingroup, percepisce visivamente gli appartenenti ad un altro gruppo (outgroup), in questo caso afro-americani. Usando un test chiamato IAT (Implicit Association Task), è stato inoltre dimostrato come i bianchi siano più lenti ad associare parole positive a volti afro-americani piuttosto che a volti caucasici, segnale che il compito di associazione è meno automatico, e quindi richiede più tempo. Ancora non sappiamo se l’associazione tra percezione di volti afro-americani e amigdala, che codifica la paura, sia da attribuirsi al fatto che l’ingroup si senta intimamente minacciato dall’outgroup, o al fatto che i bianchi, vedendo volti afro-americani in un contesto sperimentale, si sentano intimoriti proprio dall’apparire razzisti e quindi sotto stress nello sforzo di dimostrare il contrario. Quest’ultima è un’ipotesi decisamente plausibile specialmente negli Stati Uniti, dove esiste il termine white guilt per spiegare proprio questo concetto.
Quello che è certo è che, anche se consciamente non ce ne rendiamo conto e anzi, spesso ce ne proclamiamo liberi, i pregiudizi, intesi come le nostre reazioni implicite e subconscie, ci sono, e sono duri a morire – o estinguersi, per usare il termine tecnico.
Lo stereotipo invece è un insieme di attributi, come tratti personali (es. disonesto) o caratteristiche circostanziali (es. povero), assegnati ad un gruppo (es. immigrati) sulla base della cultura e/o della società. Per capirci, il tassista di cui all’inizio ha applicato una caratteristica circostanziale (malato di ebola) al cliente, perché mostrava tratti somatici africani, e si è comportato di conseguenza aprendo i finestrini (?). Se il pregiudizio rappresenta la componente emotiva della categorizzazione, lo stereotipo ne rappresenta la componente cognitiva: quest’ultimo ha una natura semantica, cioè non nasce da una reazione subconscia e difficilmente controllabile, bensì da un processo di apprendimento formatosi nel tempo. Questa differenza si riflette anche nel cervello: mentre il pregiudizio condivide il substrato neurale con la paura e le reazioni istintive agli stimoli pericolosi, lo stereotipo viene codificato nelle aree neurali di più recente evoluzione, ossia nella neocorteccia. Studi di risonanza magnetica funzionale mostrano che le strutture dei lobi temporali implicate nella formazione e nella memorizzazione di concetti sono le stesse implicate nella stereotipizzazione: come impariamo che un tavolo ha quattro gambe e un piano, cosi impariamo ad associare determinate caratteristiche ad una persona appartenente ad un certo gruppo.
Sia i pregiudizi che gli stereotipi possono essere espliciti o impliciti e, specialmente in quest’ultimo caso, è complicato governarli e non permettere ai nostri giudizi di esserne affetti; anche quando le nostre intenzioni sono le migliori, spesso non riusciamo a sottrarci a questo tipo di categorizzazioni sociali. A chi volesse approfondire questo aspetto consiglio una maratona di 30 Rock, serie tv che tratta in maniera sublime, tra molte altre cose, la questione degli stereotipi etnici nella società americana.
Fortunatamente, in quanto esseri umani, possediamo un meccanismo di controllo top-down grazie al quale è possibile evitare che le nostre risposte siano completamente in balia di processi istintivi ed emotivi, come i pregiudizi, e automatici, come la stereotipizzazione. La corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale laterale, specializzate nella gestione del conflitto tra risposte, sono due aree cruciali per l’integrazione dell’informazione e la selezione del comportamento. È qui che pregiudizi, stereotipi, norme sociali e morali, ed elementi contestuali si incontrano e si scontrano consentendo alla risposta comportamentale di essere selezionata tramite un complesso meccanismo di valutazione.
È su questo meccanismo di controllo della risposta e gestione del conflitto che è più semplice agire per arginare gli effetti del pregiudizio e della stereotipizzazione. Infatti, al di fuori del laboratorio, è complicato trovare strategie davvero efficaci per ridurre la reazione emotiva associata ad un elemento; è invece più semplice immaginare interventi per stimolare le aree di controllo e di selezione della risposta, che magari non modificheranno la nostra istintiva reazione verso i membri dell’outgroup, ma almeno ne limiteranno gli effetti. Ad esempio, è stato dimostrato che rendere le persone consapevoli dei propri pregiudizi aumenta l’attività della corteccia cingolata anteriore in una successiva prova di associazione, diminuendo l’effetto del pregiudizio.
La consapevolezza dei nostri pregiudizi e dei nostri stereotipi è dunque l’arma più immediata a nostra disposizione per sconfiggerli; sebbene gli studi sopracitati siano stati condotti per lo più utilizzando ingroups e outgroups basati sui tratti somatici, è bene ricordare che l’etnia non è l’unico elemento che ci distingue. Anzi, numerosi studi mostrano come sia facile elicitare la sensazione di appartenenza ad un gruppo e il conseguente sentimento di avversione verso gli “altri”. Anche solo distribuire tra gli studenti magliette di due colori diversi provoca divisioni inter-gruppo.
È importante quindi non ritenerci immuni né al pregiudizio né allo stereotipo, anzi, riconoscerli è il primo passo, se non per sconfiggerli, quantomeno per gestirli.
Nei momenti di maggiore debolezza siamo più esposti alle insidie dei pregiudizi: come tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita, quando siamo costretti a dedicare la maggior parte delle nostre risorse cognitive a particolari problemi come stressanti questioni lavorative o personali, i nostri organi di controllo neocorticali vengono sovraccaricati, e può succedere che le nostre risposte istintive prendano il sopravvento, sotto forma di sfuriate inutili, o di qualche sigaretta di troppo, altrettanto inutile. I giudizi affrettati e più esposti al pregiudizio fanno parte di queste risposte.
È proprio di questi momenti che dobbiamo essere consapevoli, magari raddoppiando gli sforzi e concedendoci un minuto di più prima di dare un giudizio. O di postare un commento.
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