Milano
Difendo il diritto di Sumaya a candidarsi e ad avere idee che non condivido
Sumaya, la candidata democratica al consiglio comunale di Milano, musulmana di origine palestinese, messa sotto tiro dagli estremisti che l’accusano di apostasia perché un buon musulmano non può far politica in un paese che non applica la legge coranica. Sumaya, la candidata democratica al consiglio comunale, musulmana, messa sotto tiro dalla stampa di destra, da diversi esponenti del partito democratico, in particolare da alcuni tra loro appartenenti alla comunità ebraica, per le sue posizioni su Israele. Tra queste due istantanee passano appena pochi giorni, meno di una settimana forse, eppure le due fotografie vanno guardate insieme, per capire di cosa parliamo, e di cosa sono – e quanto complicati, tortuosi, faticosi – i processi di integrazione.
Parliamo di Sumaya Abdel Qader compirà 38 anni tra il primo e il secondo turno delle prossime elezioni amministrative, ed è candidata con il Pd. Ha tre lauree, è nata a Perugia ed appartiene a quella seconda/terza generazione di diaspora palestinese che si è sparsa per l’Europa ed il mondo a cavallo degli anni 40 e 50 del secolo scorso, cioè negli anni in cui Israele, tra mille resistenze e nemici, si conquistava il sacrosanto diritto di esistere, e oltre 700.000 abitanti autoctoni arabi della Palestina storica – per qualche secolo dominazione ottomana, e poi per tre decenni protettorato inglese – divennero profughi. La definizione di profugo accettata dalle Nazione Unite (e decisamente discutibile, dal punto di vista storiografico) comprende anche i discendenti, per cui oggi i “profughi” palestinesi sarebbero oltre 4 milioni, e Sumaya è una di loro. Di sicuro – e questo non è discutibile come non lo sono i percorsi identitari che processano passati storici così faticosi – Sumaya si sente pienamente parte di quella storia, e ne ha buon diritto.
Succede dunque che Sumaya, neanche il tempo di finire su tutti i giornali come la candidata minacciata dagli estremisti perché “apostata”, ci ritorna in fretta ma con toni e per ragioni assai diverse. Già all’inizio di Maggio, di fronte a chi l’accusava di essere di fatto membro dei Fratelli Musulmani, Sumaya spiegava sul suo blog che lei non è parte, semplicemente, ma non negava l’importanza del movimento per la storia del suo paese e in qualche modo nella formazione delle sue radici. Poi succede che dalle parti di Libero e del Giornale vanno a ripescare le posizioni di suo marito su Israele, e il dubbio che lui si sia espresso per la cancellazione dello stato in effetti resta anche dopo le faticose disambiguazioni di Sumaya stessa.
Lei, infine, la sua posizione la spiega in modo forse tortuoso, ma a me abbastanza chiaro. Dice che Israele ha diritto di esistere e che è un fatto ormai inellutabile. Testualmente, scrive così: “Signori, Israele c’è. Esiste e non si può pensare altrimenti. Possiamo essere in disaccordo su come è nata ma la storia oggettiva di milioni di profughi, terre confiscate (io sono nata in Italia perché nipote di profughi) e le migliaia di morti resta”, e così: “La brigata ebraica in sé non mi crea nessun problema anzi ha avuto l’onore di combattere il nazi/fascismo e per questo sfilerei con la brigata ebraica senza problemi se non confondesse il suo essere profondamente italiana con Israele che non rappresenta me e tanti italiani“.
Sulla questione storica e storiografica si potrebbe sbrigativamente rinviare le polemiche a una ricca e autorevolissima bibliografia. La migliore e la più autocritica del mondo porta le firme dei grandi storici reviosinisti israeliani. Si chiamano Zeev Sternhell, Benni Morris, Tom Segev, Ilan Pappe e tanti altri. Sono loro, lavorando in libertà negli archivi e nelle università di quella meravigliosa democrazia che si chiama Israele, che hanno spiegato al mondo che la nascita di Israele, conquista doverosa e tardivamente concessa da un mondo occidentale “distratto” e da un mondo arabo distruttivamente nemico, è passata anche attraverso gravi ingiustizie e crimini commessi da parte delle milizie ebraiche ai danni della popolazione autoctona della Palestina storica. Vittime due volte, perché poi, per i decenni a seguire, i fratelli arabi li hanno sempre citati e utilizzati come strumenti di propaganda, e mai davvero aiutati nella ricerca di un compromesso di pace che migliorasse davvero la loro vita di “profughi per l’eternità” fino alla ventesima generazione, e senza che una scuola storica davvero autocritica, o un dibattito pubblico davvero libero, abbia portato il mondo palestinese all’autocoscienza delle responsabilità – non poche, non piccole – delle proprie leadership. Cosa che, appunto, è successa invece in Israele e nel mondo ebraico. Perché se è vero che le centinaia di migliaia di profughi ingiustamente cacciati sono “fatti”, come dice Sumaya, altrettanto vero è che il rifiuto del mondo arabo dell’accordo originario che avrebbe portato alla nascita dello Stato D’Israele ha contribuito in modo decisivo alla non-nascita dello stato palestinese che le Nazioni Unite aveva previsto come contestuale. Anche questi sono fatti, e non sono meno importanti.
Sulla questione della Brigata Ebraica, diciamo che la confusione che regna sotto il cielo è grande da un po’. La brigata ebraica effettivamente con Israele non c’entra niente, visto che era una brigata di combattenti ebrei che stava al fianco degli alleati e dei partigiani contro i fascisti e i nazisti in Europa. Dovrebbero saperlo sia quanti la usano in chiave filo-israeliana sia quanti la usano in chiave anti-israeliana, a ogni benedetto 25 Aprile, puntuali come la tosse. Invece no, ignoranza e malafede sono abbracciate e ogni anno ci troviamo di fronte alla solita polemica trita e ritrita, un pezzo di maniera. Sumaya doveva sottrarsi, ma non è l’unica, da ambo i lati di questa “fantasiosa” – diciamo così – barricata. Personalmente, visto che sono anche un elettore, e tendo a considerare come una la pensa sulle cose che ritengo importanti al di là della singola missione amministrativa per cui sono chiamato a votare, guardo con scetticismo a chi sta su questa barricata, da entrambi i lati della strumentalizzazione.
Ma quel che qui preme, però, è dedicare quattro pensieri alla polemica sorta dalle dichiarazioni di Sumaya. Tralasciando le evidenti forzature della stampa di destra – “i fratelli musulmani mettono le mani sul Pd”, e altre amenità -, colpisce la tendenza diffusasi in alcuni segmenti del Pd milanese e non solo, a considerare la candidatura di Sumaya inopportuna, sostanzialmente sbagliata, in nome delle idee che ha espresso su Israele come entità ineluttabile, e non come benedizione storica. La storia politica di Sumaya sta tutta nel cuore dell’associazionismo islamico europeo, un mondo sfaccettato al di là degli stereotipi, un mondo complesso e che lentamente, faticosamente, per responsabilità proprie e delle classi politiche e dirigenti europee, si è avviato con mille fatiche e mille tensioni verso una difficile integrazione. Un’integrazione che non può non passare per la rappresentanza politica ed elettorale. Questo processo passa necessariamente per il confronto – anche duro, anche muscolare – con sensibilità e valutazioni della storia diverse e dissonanti e quello che per noi – “Israele è ineluttabile, al di là del fatto che sia nato male” – può essere meno del minimo sindacale, nelle comunità di riferimento di Sumaya può invece rappresentare un punto di frattura forte, un passo in avanti, un elemento di dibattito inimmaginabile appena dieci anni fa.
Del resto, ognuno ha la sua storia, ognuno ha le sue comunità elettorali di riferimento, ognuno – ah, le preferenze… – i voti se li prende dove può. Vale sicuramente per Sumaya. Così a occhio, però, non vale solo per lei. E insomma, è giusto discutere animatamente con Sumaya sulla storia del Medioriente, ma non dovrebbe lasciarla sola, neanche un secondo, di fronte a chi l’accusa di apostasia, a chi non vuole che Sumaya pensi con la sua testa, esprima le sue idee e la sua visione del mondo, e partecipi alla nostra vita pubblica. A Milano, per la precisione.
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