Lavoro
Covid-19 ha spento la musica e siamo rimasti senza sedia
Abbiamo fatto una gran fatica. Ci siamo inventati altre storie, modi nuovi di guardare a noi stessi e al mondo. Siamo nati negli anni ’80, siamo cresciuti nell’epoca delle privatizzazioni, eravamo alle medie quando è stato emanato il pacchetto Treu. A un certo punto ci è stato chiaro: saremmo stati peggio dei nostri genitori.
Siamo la generazione che ha finito gli studi al tempo del lavoro precario, la generazione degli stage, delle assunzioni a progetto, delle false partite IVA. Ci siamo presi dei choosy e dei bamboccioni. Abbiamo rischiato di arenarci nell’autocommiserazione, ma poi alla fine – seppur in affanno – abbiamo deciso che valeva la pena aggiornare la mappa e tracciare nuove rotte. Siamo stati al gioco, con buona pace del posto fisso, delle ferie d’agosto, del tempo indeterminato, del mito del mattone. Abbiamo iniziato a viaggiare leggeri.
Ci siamo convinti che fosse bella questa libertà (flessibilità, la chiamavano alcuni), abbiamo pensato che in fondo fosse un invito a inseguire passioni, a sperimentare talenti, a scoprirsi capaci di progetti audaci. Abbiamo provato a rovesciare la narrazione, preso familiarità con l’ombra sfiancante della provvisorietà per cercare di cogliere il portato positivo di quell’imprevisto che, di tanto in tanto, può rilevarsi sorpresa, scoperta, realizzazione di sé e di qualcosa di buono.
Abbiamo fatto fatica, ma alla fine ci stavamo quasi credendo che questo mondo mobile in cui ogni giorno è diverso dall’altro, in cui non conta dove metti radici ma quanto sai guardare lontano, avesse in sé anche la promessa di una storia ancora da scrivere, di cammini da incrociare, di competenze da reinventare.
Poi sono arrivati questi giorni di quarantena. Dei giorni che ci costringono all’immobilità, se non per quegli squat ripetuti nevroticamente nel salotto di casa.
Noi della generazione Erasmus, dei voli low cost, noi con gli amici sparsi e qua là ci siamo ritrovati confinati tra il bidet e il sofà. E’ come da bambini, quel gioco crudele in cui si ferma la musica e devi precipitarti ad accaparrarti una sedia: uno dopo l’altro, chi resta in piedi viene eliminato. Un virus microscopico e ubiquo ha spento la musica e questa stasi forzata ci restituisce la fotografia, spesso impietosa, di quel che ci manca. Abbiamo pensato – e ci credo con tutto il cuore – che gli amici fossero la famiglia che ti scegli, ma alla dodicesima colazione che fai da solo ti sale un magone che porca miseria. Abbiamo pensato che la casa non fosse una priorità perché l’importante è fare del mondo la misura del nostro orizzonte, ma se devi trascorrere cinque settimane in un luogo inospitale ti sale una malinconia che hai voglia di cantare dai balconi. Ci troviamo senza commesse, senza possibilità di fatturare, senza reddito. Ci troviamo senza tutele, con contratti a termine che scadono e non verranno rinnovati, con contratti di collaborazione sospesi, con attività in cui avevamo messo l’anima che faticheranno a ripartire.
È difficilissimo per tutti. Ma è stato uno schiaffo questo arresto repentino: eravamo fluidi e ora siamo dannatamente immobili. Come quando su un letto di un fiume si depositano scorie e detriti. Seguivamo la corrente – chi provando a non annegare, chi persino con giubilo a bordo di fenicotteri rosa – e ora siamo rimasti con l’acqua alle caviglie e la sensazione che non si vada da nessuna parte.
In tanti ci stiamo dicendo che il punto non è tornare alla vita di prima, perché in effetti non stavamo niente bene anche prima del merdosissimo COVID 19. E infatti quando ci saremo messi tutto questo alle spalle dovremmo ricordarci che quelle strade, ora deserte, sono la nostra casa, che le piazze sono fatte per essere riempite, che le città vivono dei nostri incontri, dei nostri corpi, di quell’attraversare soglie che è l’unico modo per rinegoziare confini. Ci dobbiamo riprendere il divenire: il piacere degli incontri, l’ebrezza dei viaggi, il lusso di cambiare opinione, mestiere e pure vita, se lo vogliamo. Ma senza sedia non ci vogliamo rimanere. Sarò nostalgica, ma un’idea di società che lascia tanti, troppi col culo per terra, non ha niente di innovativo. È solo profondamente ingiusta.
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