Costume
Un intellettuale al Grande Fratello Vip
Fulvio Abbate, il Marchese Fulvio Abbate, eccede per attitudine. L’eccesso è la categoria dello spirito che più gli dona. L’andare oltre gli appartiene. Vuoi per esuberanza intellettuale, vuoi per narcisismo ben piantato, vuoi per sincero disprezzo per tutto ciò che è politicamente corretto, vuoi per il dovere di sorprendersi, sta di fatto che gli appartiene.
Il Marchese, per chi ne frequenta le uscite letterarie, è materia assai complessa, opaca, a tratti effervescente, invisa a resoconti psicanalitici arrangiaticci e a qualsiasi moralismo d’approssimazione, cioè a qualsiasi moralismo.
Brillante, mai banale, alle volte baroccheggiante – da décadent compiaciuto –, ha persino deciso, di recente, facendo trasecolare chi lo segue, di consegnarsi al Grande Fratello Vip. Plastica rappresentazione del welfare televisivo, fucina catodica di assistenzialismo domiciliare per tutti i mediocri d’Italia: e la mediocrità italica, per mole, ha davvero bisogno di un esercito di badanti.
“Non vedevo l’ora di andarmene”, ha dichiarato appena fuori dalle mura della casa degli spiati. Come se potesse davvero sopportare quel format. Come se quel format potesse davvero sopportare lui, il Marchese. Anni e anni di capriole mughiniane non sarebbero state sufficienti. L’intellettuale al GFVip si dà solo se in veste, anzi in vestaglia, di gaffeur funzionale. Dove per gaffeur si intende chiunque risulti anomalo, fuori luogo, rispetto a un determinato contesto comunicativo e dove per funzionale si intende chiunque risulti funzionale all’audience in virtù del proprio incarnare, diligentemente, l’anomalia.
Ma Fulvio Abbate è un indisciplinato cronico, anche nell’essere anomalo. Il disagio e lo spaesamento, dicevano gli scettici, lo avrebbero pizzicato in tempi rapidissimi. La sua aspettativa di permanenza, sulla carta, non poteva superare quella di un meridionale normodotato a un comizio di un meridionale leghista. Un accomodamento indolore era impensabile. Un accomodamento di qualsiasi tipo era impensabile. Soprattutto, era impensabile il prendere parte a una simile schifezza posticcia “con orgoglio” e “senza snobismo”, per mettere alla prova la propria capacità di resistenza “a qualsiasi temperatura”.
Era moderatamente scontato che tale dichiarazione di intenti, più audace dell’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio, potesse convertirsi, ex post, in considerazioni sulla “contezza del mondo” di Francesco Oppini: “Un mondo nel quale le uniche citazioni che scandiscono la giornata provengono da un perimetro subculturale che va da Paperissima a Sanremo”. Così com’era moderatamente scontato, nel caramelloso cosmo a immagine e somiglianza di Signorini, l’imbattersi in un livello culturale medio inferiore di gran lunga a quello del Pascoli. La domus aurea di Mediaset non è stata escogitata da un drappello di esistenzialisti. Cosa che il Marchese ben sapeva prima di accasarsi.
Per cui, tralasciando la psicologia da discount, rimane un mistero, al netto dei propositi ufficiali, l’incursione abbatiana. Non supportata, per ammissione del Nostro, dal distacco ironico dell’antropologo pop (“senza snobismo”). Non supportata da un approccio epistemico serioso e disinteressato. Non supportata, si spera, da velleità pedagogiche (per sconficcare da quelle teste di cavernicoli platonici il disordine simbolico che le governa, inducendole magari a esplorare angoli di pensiero alternativi alla scorreggia gossippoide di cui solitamente si nutrono, non basterebbero neanche 200 sessioni di “cura Ludovico”). Non supportata, viene da sé, dall’undicesima tesi su Feuerbach. Non supportata dalla brama di successo né dalla volontà di incrementare il numero dei propri follower, piccinerie lontane anni luce dallo stile del Marchese. Non supportata, in definitiva, da niente di niente. Non supportabile e, chissà, insopportabile.
A meno che l’approdo in terra di signorinitudini non abbia obbedito a motivazioni meno lineari, riconducibili, per esempio, a un certo desiderio di irriconoscibilità, a un momento psicotico (tutti ne abbiamo diritto) o a un certo gusto, strafottente e anarcoide, per lo scandalo, a metà strada tra una mondanità sperimentale dettata dallo spleen e la performance blasfema.
Ma se così fosse, sarebbe doveroso un ultimo avvertimento: ci vuol poco a passare dallo scandaloso allo scandalistico.
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