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Tutta la nostalgia vien per nuocere? O della nostalgia utile
Avevo già scritto su questi schermi del fenomeno nostalgia in occasione dell’uscita del discusso disco di Cristina D’Avena “Duets”. In quell’occasione, più che cercare di trovare risposta alla domanda “Ha senso o non ha senso questa operazione discografica?” (e tantomeno una soluzione al quesito sulla “bontà” di quest’ultima), ho cercato di delineare un percorso – culturale e sociale – che ha trovato in questo disco un riferimento intergenerazionale. Curioso che per introdurre il pezzo – e senza alcun contatto con i vertici di Netflix! – fossi incappata io per prima inconsciamente in un riferimento generazionale nostalgico: i capelli alla Fantaghirò. Curioso, ma fino a un certo punto, perché faccio parte di quel frammento generazionale che più ha risentito (o beneficiato) del fenomeno nostalgia. Giovani non più tanto giovani fra i trenta e i quarant’anni che hanno salutato con gioia l’uscita di Duets o che hanno fatto il pelo e contopelo all’operazione a suon d’interventi dai toni più o meno caustici.
Torno sul tema riallacciandomi ad un interessante articolo apparso ieri su Linkiesta dove si definisce il 2017 come l’anno di massima fortuna del trend “revival”. Partendo da Reynolds e dal concetto di retromania il pezzo sottolinea come la nostalgia stia “diventando il cavallo di Troia della rassegnazione”, un “è andata così, allora tanto vale consolarci in qualche modo”. Vero e, a tratti, anche giustificabile.
Una generazione che si sente costituzionalmente privata delle prospettive per le quali si è preparata può cadere in questa tentazione di corale canto consolatorio.
Tutti insieme, mal comune, almeno passiamo il tempo ricordando quando di speranze ne nutrivamo ancora qualcuna. La questione però credo abbia ulteriori sfaccettature e implichi alcune distinzioni preliminari: l’analisi vale per una fetta generazionale molto ben delimitata e per un certo tipo di retromania.
Il recupero ossessivo del passato – dalle serie tv agli oggetti di design passando per moda, cibo, musica – sembra colpire in particolar modo le persone nate fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta. I più “anziani” infatti guardano con una certa incredulità all’interesse suscitato dal recupero di certi prodotti culturali, che valutano – nella migliore delle ipotesi e con sguardo bonario – come rozze premesse di un presente decisamente migliore, i più giovani non ne sentono il bisogno, perché il loro passato è tutt’ora presente. Se gli attuali quarantenni sono, in questo senso, più vicini ai loro padri nell’approccio alla nostalgia, i più giovani rappresentano la vera rivoluzione in materia.
Cresciuti con un diverso tipo di approccio al consumo televisivo (tv a pagamento, canali dedicati) e con una maggior sovrapposizione fra prodotto dedicato ai “piccoli” e ai grandi, vivono in un costante presente.
Serie tv-games come i Pokemon hanno conoscituo una grande fortuna negli ultimi vent’anni, fortuna continuativa che non ha implicato alcuno “stacco” temporale fra i bambini degli anni duemila e i giovani adulti di oggi, così come grandi saghe letterarie-filmiche. Inoltre, se per la generazione degli attuali trentenni, l’idea del film condiviso in famiglia era ben rappresentata da un genitore accondiscendente dall’aria rassegnata che si sorbiva l’ultimo vhs della Disney, per i ventenni di oggi la condivisione di uno dei film della saga di Harry Potter ha probabilmente significato qualcosa di molto diverso e, si passi il termine ormai esausto, più intergenerazionale. Del resto anche le merendine sugli scaffali sono rimaste le stesse (nessuno ha più dovuto subire il “trauma” della scomparsa del Soldino o dei Palicao) e il diffondersi, nelle grandi catene di abbigliamento, di uno stile “tana libera tutti”, che mescola sugli stessi scaffali spalle larghe anni Ottanta, giacche di jens dal sapore punk, bomber da paninari ed eskimo dal retrogusto sessantottino ha fatto il resto in termini d’immaginario.
La nostalgia quindi non ha, per questa generazione, lo stesso significato che ha per un trentenne, al quale l’eskimo è arrivato dalle foto color seppia dei genitori e il bomber da paninaro dall’armadio del cugino più grande.
La nostalgia si costruisce su uno stacco e questo stacco, passati gli anni Novanta, non c’è più stato.
Forse per questo la generazione dei trentenni sente così forte il suo richiamo: privati delle sicurezze sul futuro proprie ancora dei fratelli maggiori, ma allo stesso tempo di quel background rassicurante dell’eterna infanzia in cui – se lo desiderano – possono restare ancora e ancora immersi i ventenni, si rifugiano, davvero in termini autoconsolatori, in un passato felice ricostruito a tavolino da intelligenti operazioni commerciali.
Ma – e con questo vengo alla seconda distinzione – si tratta solo di operazioni commerciali volte a raccogliere il consenso di una generazione di senzaterra e poca speranza? A voler essere pignoli questa è anche la prima epoca che fa di un recupero strutturale di riferimenti del passato recente materia di rielaborazione creativa. Già nel Novencento esistevano le mode antiquarie, il modernariato, ma non esisteva l’odierna attenzione per un recupero “attualizzante” del passato prossimo. Il vintage è figlio della nostra epoca, così come il recupero di tecniche fotografiche analogiche (di contro al progresso costante del digitale degli ultimi vent’anni), del vinile, dei materiali “di una volta” per il design (legno, pietra vs materiali plastici).
Per chi conduce esperiementi creativi tutto questo ha un significato che non ha nulla a che vedere con la stagnazione, ma che anzi rivendica uno spazio di recupero – sedimentazione, riscoperta – a fronte dell’ossessione per il continuo progresso e la continua crescita che hanno caratterizzato gli ultimi anni del Novecento e i primi del Duemila.
Saltando di suggestione in suggestione, non si può dire che operazioni creative come Stranger Things o – a mio parere ancor meglio – Dark (serie Netflix che ha conosciuto minor fortuna, speriamo solo momentaneamente) siano solo frutto di un ammiccamento al sentimento nostalgico di una generazione. Tuttavia non sarebbero quello che sono senza l’ingombrante presenza di un passato sulle cui radici si struttura il racconto.
Forse allora non tutta la nostalgia vien per nuocere. Di sicuro se nuoce, nuoce in particolare ad una generazione intrappolata fra un passato che, con consapevolezza, percepisce come tale, e un presente consolatorio in mancanza di un futuro facilmente perimetrabile. Non a chi, passati i quarant’anni, beneficia ancora di netti passaggi nelle fasi esistenziali a cui hanno corrisposto anche passaggi culturali e d’immaginario collettivo, non ai giovani che vivono un indistinto lungo presente senza soluzioni di continuità.
Tutto questo lascia aperta una domanda, quella sulle sorti dei trentenni di oggi. Sono destinati ad un rassegnato passaggio di mano, come sostiene in parte Ventura nella sua Teoria della classe disagiata, ovvero a lasciare il posto a una generazione più consapevole e realista, più preparata a cavarsela nel mondo reale? Io non credo. Penso infatti che la funzione di questa generazione sia quella di fornire, alla successiva, l’immunità di gregge. Ai più giovani, venuti solo marginalmente in contatto con le cause della fantomatica crisi, figli di un’epoca già profondamente strutturata secondo nuovi parametri, i trentenni di oggi possono passare gli “anticorpi” necessari a per non finire, in nome della lotta contro la rassegnazione, schiacciati da un iper realismo che si manifesta in un eterno presente, dove la nostalgia non ha spazio perché tutto è costantemente a disposizione “on demand” e il senso della profondità temporale – e dell’identificazione generazionale (quindi di gruppo) – è fortemente diluito. La sfida, in questo senso, sta nel combattere la nostalgia inutile e dannosa, quella che porta alla stagnazione rassegnata, difendendo però il senso di “farsi” storico, la profondità del percorso temporale – personale e di gruppo – il sentimento del tempo. Quel sentimento del tempo, costantemente esorcizzato dalla contemporaneità (perché implica una fine, uno scorrere, una limitatezza e una vulnerabilità), che è molla fondamentale per la creatività e il cambiamento, ma che è prima di tutto – e banalmente – un sentimento, che si alimenta anche attraverso la nostalgia. Quella creativa, quella che serve.
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