Costume
«The White Lotus», un’occasione perduta
Il risultato finale della rappresentazione dell’isola e dei suoi abitanti è negativo. Gli autoctoni, personaggi di contorno alla storia, sono rappresentati come truffatori, imbroglioni, opportunisti, prostitute e assassini
Ha vinto, nei giorni scorsi, due Golden Globe. È riuscita a tenere incollati alla sedia, negli Stati Uniti, ben oltre quattro milioni di spettatori per seguire l’ultima puntata della seconda stagione.
Serie antologica di produzione americana creata, sceneggiata e diretta da Mike White in cui ogni stagione è ambientata in un resort di lusso diverso e che si chiude, narrativamente parlando, con un omicidio, dopo una prima stagione girata e ambientata a Honolulu, il mondo è stato invaso dalla seconda stagione, ambientata in Sicilia. Successo planetario, visti i numeri che sembra aver realizzato la piattaforma che ne ha comprato i diritti. Eppure, come spesso accade, non è tutto oro quello che luccica. In realtà dopo una prima stagione “money-based” è stata presentata al pubblico la seconda, quella appunto realizzata in Sicilia, che è “dick-based”. Erede della peggiore tradizione americana della serialità, “The White Lotus” è una serie che racconta sfarzi, vizi e virtù (poche) del turista americano che decide di spandere con grande disinvoltura il proprio denaro in giro per il mondo scegliendo strutture turistiche che non tutti si possono permettere e località con viste mozzafiato. Il tutto condito con un eccessivo sfruttamento della simbologia che riguarda il tema cardine della stagione.
Ovviamente non si può pretendere, viste le necessità realizzative del prodotto, che i percorsi e i luoghi narrati corrispondano al reale per cui, sempre parlando della stagione ambientata in Sicilia, scopriamo che Taormina, sede del “Four Seasons San Domenico Palace” che per l’occasione è ribattezzato “The White Lotus”, in realtà possiede una meravigliosa spiaggia che risulta essere quella di Cefalù. Poco importa. Come poco importa che gli esterni e gli interni del Teatro Massimo di Palermo siano sapientemente mescolati al palco del Teatro Bellini di Catania perché, in fin dei conti, si tratta di finzione.
Ma, finzione per finzione, alcuni aspetti devono essere necessariamente analizzati. Da dove iniziare? Senza dubbio dalla regia e dalla sceneggiatura. Il deus ex machina Mike White ci propone una sceneggiatura prevedibile, senza appeal narrativo, spesso didascalica e costellata di personaggi che sono la caricatura di loro stessi o, nel caso degli autoctoni, stereotipati. Il tutto condito da una regia che ricorda, purtroppo, più “Love Boat” che non quella della serialità americana di ultima generazione. Il montaggio non aiuta né la sceneggiatura né la regia, abusando d’immagini di riempimento ritenendole evocative e portatrici di patos e che, troppo spesso, evocano simboli sessuali femminili o maschili e anticipano, o sostituiscono, gli orgasmi. La fotografia raggiunge poco più che il cosiddetto minimo sindacale, riuscendo a malapena a valorizzare viste e panorami che sarebbe stato meglio lasciare al naturale che non manipolare attraverso luci artefatte.
Dulcis in fundo. Si dice, ma i dati ufficiali ancora non lo confermano, che dopo la messa in onda della stagione realizzata in Sicilia, frotte di turisti americani abbiano invaso l’isola trasformandola in meta turistica preferita. Normale, direte voi. Probabilmente sì ma, in realtà, il risultato finale della rappresentazione dell’isola e dei suoi abitanti è negativo. Gli autoctoni, personaggi di contorno alla storia, sono rappresentati come truffatori, imbroglioni, opportunisti, prostitute e assassini arrivando, a bassa voce perché «questa parola a Palermo non si può usare», a utilizzare la mafia come sistema occulto responsabile dell’omicidio su commissione che caratterizza la seconda stagione della serie.
Qualcuno ha scritto «ha fatto di più “The White Lotus” per il turismo che dieci anni di spot promozionali ufficiali». In realtà sì, ma non in bene. Il racconto del siciliano e dell’isola continua a essere negativo e stereotipato rasentando quasi quello dell’individuo da tenere alla larga ma, come si dice in questi casi, “se va bene a voi, contenti tutti”.
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