Costume
Sommessamente (…a un eroe del nostro tempo)
Nei giornali e sul web si trova di tutto da sempre e non era, in fondo, strettamente necessario un evento dirompente come una guerra in Europa per raccogliervi gioielli di stupidità, ipocrisia o cinismo. La crisi ucraina ha semplicemente funzionato come il collo di un imbuto, concentrando la bestialità nel tempo e nello spazio.
Adesso non serve alcuna ricerca particolare: l’orrore, il ridicolo e il grottesco si dipanano sotto gli occhi come in un arazzo. Da tre mesi ne raccolgo un florilegio che spero non vada del tutto perduto e, in qualche modo, rimanga a futura memoria, non fosse che per me. Pur in questa cornucopia, tuttavia, vi sono talvolta delle perle di tale stupefacente splendore da meritare uno scrigno tutto per loro.
È il caso di questo scritto, apparso su La Repubblica di ieri (04.05.2022 pag.35) a firma di Luigi Manconi. La ragione della sua particolare rilevanza, per me, è derivata in primo luogo da ciò che definirei il suo aroma. Fin dal titolo vi si annuncia Tartufo. Ma l’ipocrisia non vi è ostentata, come può accadere, per esempio, in un articolo di Gramellini o di Francesco Merlo. Vi è piuttosto didascalicamente diluita per renderla commestibile e facilmente digeribile anche ai più delicati di stomaco
In primis vi si arguisce che la crisi ucraina pone le domande eterne:
“Quanto vale la libertà della persona? C’è qualcosa per cui è giusto rischiare la vita? Possiamo vivere nella paura dell’Apocalisse senza per questo capitolare di fronte alla sopraffazione?”.
Poi se ne rilevano i sintomi clinici:
“Una polverizzazione della conflittualità intestina e un acutizzarsi della suscettibilità sentimentale, di cui offrono testimonianza, oltre che la nostra esperienza quotidiana, i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura e le Società degli psicologi, degli psicoanalisti e degli psichiatri”.
Infine se ne approfondisce la diagnosi:
“Va detto che ciò che si verifica nella vita sociale e nelle dinamiche interpersonali corrisponde a profondi mutamenti in atto nelle opinioni pubbliche e nelle mentalità collettive”.
E che si verifica? Ecco:
“La guerra in Ucraina, in tre mesi, ha creato inimicizie tante quante ne ha diffuse la pandemia.”
La lettura dell’articolo, dunque, è stata inutile, dal momento che il titolista aveva sintetizzato tutto in sei parole: “La guerra divide famiglie e amici?”. Manconi ne ha usate (circa) un migliaio per dire quello che nel corso degli ultimi mesi è stato già detto mille volte, da mille impiegati, in pausa caffè? Invece no.
E non bisogna lasciarsi scoraggiare. Non si tratta qui della quantità. E neppure della qualità di scrittura, che è quella che è (ognuno, insomma, scrive come può e come sa e se è vero che, da uno che pur scrivendo mediocremente lo fa correntemente, ci si aspetterebbe lo stesso qualcosa di un poco meno insulso, è ugualmente vero che l’insulsaggine, ormai, non sorprende nessuno).
Di cosa si tratta allora? In cosa consiste la particolarità di questo vero gioiello di ipocrisia nazionale (e non solo)? Bisogna arrivare fino in fondo. Perché è la chiusa del pezzo a donarci l’epifania. Solo allora si comprende che quella conclusione, in realtà, aleggiava fin dall’incipit, che le fatue amenità di prima non facevano che da preludio a questo magnifico finale: il cerchio perfetto della tartuferia.
Ecco la chiusa:
“Sono disposto a mettere a repentaglio la mia vita per salvare la mia libertà? Siamo disposti a rischiare ciò che comunemente intendiamo come “terza guerra mondiale” per salvare la libertà dei popoli? Personalmente sono disposto a rispondere con un sommesso sì”.
Chi ha scritto e – sommessamente? – concepito, questa dichiarazione non è – è necessario dirlo? – un giovane ardito asserragliato nei cunicoli delle acciaierie di Mariupol e non è nemmeno un maturo legionario che sfida la legge italiana per correre ad arruolarsi nel battaglione Azov e dare così il suo contributo di sangue, sotto la svastica, alla eroica lotta dei popoli. È un assai benestante professore universitario in pensione di settantaquattro anni che scrive dal suo confortevole studio e che, apposta la firma a queste leggendarie parole, andrà a cenare con la sua celebre e ancor più ricca signora in un ottimo ristorante a cinque stelle. Dopo, magari, a teatro o a un concerto oppure nell’attico di Lavinia o di Fulvia a bere un drink con gli amici. Uno che sa, o dovrebbe sapere, quello che valgono parole come “libertà” e, peggio ancora, “libertà dei popoli” quando a pronunciarle sono i privilegiati e non gli oppressi. Con quanta parsimonia e quanto pudore dovrebbero essere usate da quelli come lui. Perché sa, o dovrebbe sapere, con quanta facilità queste parole, da vuote astrazioni, possano trasformarsi in veri e propri crimini. O istigazioni al crimine.
Perciò ecco, io ho ritrovato in questo scritto, in sintesi e in formato tascabile, tutto ciò che da quasi tre mesi mi toglie il respiro. Tutta la volgarità, l’impudicizia e l’ipocrisia di questa indegna kermesse quotidiana sull’Ucraina. Il grottesco di questa corte dei miracoli fatta di imbonitori e venditori all’incanto che si riempiono le gote con qualsiasi porcheria retorica disponibile sul mercato per risputarcela addosso da ogni pulpito televisivo o giornalistico. E, detto per inciso, ritengo un vero coup de génie che tutto questo sia stato iconicamente rappresentato proprio da quello strabiliante aggettivo – “sommesso” – posto lì dove neppure Tartufo in persona sarebbe riuscito ad infilarlo.
È per questa ragione che – sommessamente, com’è ovvio – ho voluto testimoniare la mia sconfinata ammirazione a Luigi Manconi, un eroe del nostro tempo.
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