Costume

Solo i “non ricchi” possono mostrare il bene che fanno? Una storia di fine feste

6 Gennaio 2020

Mi ricordo, da piccola, in Chiesa, la domenica, al momento dell’offerta, cercavo di spiare tra le dita di mio padre per capire quante banconote e di che taglia tenesse in mano. Ma la mano del papà era chiusa, serrata, solo gli occhi più o meno sgranati di chi reggeva il cestino delle offerte lasciavano intuire, dopo che il malloppo era stato sganciato, quanto fosse stato generoso. Siamofigli di un atteggiamento di understatement, il motto è sempre stato “non sappia la mano sinistra quello che fa la mano destra”. Credo che abbia a che fare con questa educazione al segreto benefico, il fastidio istintivo che provo ogni volta che qualcuno pubblicamente esibisce un proprio gesto solidale, di qualsiasi entità e materialità esso sia. O, almeno, questo è quello che ho creduto a lungo: “Eddai! Si fa in silenzio, se no vale meno”.

Finché un giorno ho visto pubblicato un tweet di una persona che stimo molto e che è assolutamente restia a raccontare pubblicamente alcunché di privato, che dichiarava di aver appena cominciato la giornata eseguendo un versamento all’associazione Luca Coscioni di Marco Cappato. E non mi sono affatto infastidita. Anzi. Naturalmente, in quel caso, non era soltanto un gesto benefico, era un gesto politico. Ma, in fondo, non è politico ogni gesto benefico in sé? No, c’era qualcosa d’altro: c’era la stima, certo; c’era l’eccezionalità di una dichiarazione che spiccava su tutta la riservatezza del personaggio; c’era che in quelle settimane si era parlato molto di eutanasia legale e che quella donazione (di cui comunque non veniva dichiarata l’entità, ma poco importa), simbolicamente era erogata anche verso il proprio eventuale domani, esibendo senza infingimenti quella dose di risarcimento egoistico che, nel presente o nel futuro, ogni gesto solidale porta con sé. Ma, anche qualcosa d’altro: c’era, c’è, che quella persona non è una persona benestante; c’era che quella dichiarazione pubblica, fatta da lui, aveva un peso totalmente diverso che se, per esempio, la avessi fatta io. Tant’è che, infatti, io non lo avevo detto pubblicamente e non perché sia più riservata di lui, non perché sia stata educata diversamente da lui. Non lo sono. Quindi la tollerabilità pubblica dell’esibizione del gesto benefico è relativa allo status economico di chi la fa? Per molti, sì. Inconsciamente è stato così anche per me, a lungo.

Una volta, ai tempi dell’università, ricordo di avere avuto una accesa discussione con un professore sessantottino che frequentavo intensamente durante la stesura della mia tesi. Io ero ideologica come lo si può essere a vent’anni, col mio passato tutto diverso dal contesto alieno in cui mi ero trapiantata e con una storia tutta nuova da scrivere; lui apodittico come lo si può essere a settanta anni, con quella storia alle spalle e un futuro interrotto da una brutta malattia che aveva messo il contagocce ai suoi giorni. Quel giorno ci eravamo incartati in questa polemica senza uscita, per la quale lui sosteneva che, se sei ricco, dichiarare i gesti di beneficienza equivale unicamente a ribadire la facoltà dell’esercizio di un diritto che è negato ai poveri. Che, da povero, quale si considerava, il massimo di libertà di gestire il proprio patrimonio che aveva era decidere a chi devolvere il 5×1000 e che,comunque, a ben vedere, non era nemmeno una scelta libera avendo a disposizione un numero chiuso di opzioni. Quell’argomento aveva finito per convincermi abbastanza facilmente, facendo leva col suo razzismo inverso, verso il mio senso di colpa: se sei ricco, sei condannato a fare e non dichiarare quello che fai, perché è un insulto a chi non lo può fare.

Sono passati quindici anni: accompagno a scuola mio figlio tutti i giorni e, prima di entrare, ci fermiamo dal fornaio, fuori dal quale staziona un ragazzo a cui abbiamo preso l’abitudine di offrire la colazione. Per mesi, ogni giorno, insieme al pane per mio figlio, gli abbiamo preso brioche, panini, tranci di pizza, fette di torta, pagnotte. All’inizio, così, indistintamente, cercando io di captare dalla sua faccia che cosa gli potesse piacere di più: preferirà dolce o salato? Avrà divieti religiosi? Avrà allergie? Intolleranze? Ovviamente avrà i suoi gusti, quindi “perché non chiediamo direttamente a lui di che cosa ha voglia?”. 1-0 per il cinquenne che ha colto in pieno due dei grandi malintesi della beneficienza: da una parte chi mette i soldi, da qualche parte, anche molto remota, pensa di poter decidere per che cosa esattamente metterli (tanto è vero che, nel tempo, abbiamo convinto un altro nostro beneficiato a spostarsi sul marciapiedi opposto dove con la stessa cifra che gli davamo fuori da un costoso caffè, avrebbe potuto prendersi il doppio di quello che acquistava là dentro, ragionando per lui in opportunità quantitativa e non qualitativa); dall’altra, meno remota, ma più inconfessabile, l’idea che quando ti manca tutto, vada bene qualsiasi cosa, come se a chi ha meno si annullassero i gusti, le preferenze, i desideri (tanto è vero che, per quanto ci faccia vergognare il pensiero, da qualche parte l’immagine che una persona possa non avere una casa in cui vivere, ma invece abbia uno smartphone o le unghie smaltate, manda in errore irreversibile i conti che ci sentiremmo in diritto di poter fare alle vite degli altri).

Ma c’è una cosa che mio figlio non può sapere: evitare di fermarci a interpellarlo, sostare con lui per capire dalla sua reazione se fosse soddisfatto della colazione che gli avevamo preso, o lasciare addirittura un bonus sospeso alla fornaia perché scegliesse lui che cosa prendersi da mangiare, tutto sarebbe equivalso a ostentare gesti che ci hanno educati a tenere nascosti. E, senza accorgermi, io stavo dando esattamente la stessa educazione a mio figlio: non si sappia quello che facciamo, rimanga tutto tra noi e quel ragazzo; “non ti curar ma guarda e passa”; niente di quello che puoi permetterti di fare sia un insulto a chi non lo può fare perché meno fortunato. Dimenticandomi un paio di cosette importanti, tra le quali che nel frattempo, contraddicendomi, non ho mai avuto nessun problema verso chi non ha una casa a pubblicare immagini di casa mia, o raccontare delle mie passeggiate ignorando che potesse leggermi qualcuno che non ha le gambe, o parlando dei miei figli a chi non può averne; ma anche dimenticandomi, intanto, che tenendo per noi questo atteggiamento virtuoso del dono, stavamo decidendo anche per lui, privandolo di qualcos’altro. Quando guardiamo nel cappello di chi elemosina, sappiamo che le prime monetine, probabilmente, le ha messe luistesso: un po’ è una questione deittica che indica “guarda: è lì che devi mettere i soldi”, ma un po’, molto, è anche “che sia d’esempio e di incoraggiamento che qualcuno lo ha fatto prima di te”.  Negare il valore pubblico del nostro gesto, perciò, significa anche in un certo senso, negare la possibilità dell’emulazione. Questo ho pensato.

Poi è successa una cosa, che ha cambiato tutto e ha rotto anche nei confronti dei miei figli la catena dell’educazione da me ricevuta: una mattina, mentre eravamo in coda dal fornaio, una signora davanti a noi si stava lamentando della presenza di quel ragazzo perennemente lì fuori a chiedere l’elemosina. Avendo lei un’attività commerciale a fianco, spronava il forno a prendere provvedimenti perché, a suo dire, l’immagine prodotta da quella scena era di degrado assoluto e le toglieva clientela. Al coro della signora si univano quindi le voci di una coppia di genitori che sostenevano le sue stesse ragioni, rincarando la dose nell’idea che, a maggior ragione, avendo vicino una scuola, quella e altre persone potessero spaventare i bambini. Nel frattempo, il mio turno si avvicinava, guardavo mio figlio lì, vicino, spaventato sì, ma da quei commenti incomprensibili per lui e che cozzavano con quello che gli avevo fatto fare per un anno; vedevo l’imbarazzo della fornaia che, senza che le dicessimo niente e senza dirci niente a sua volta, vedendoci trafficare fuori dal negozio coi sacchetti, aveva capito benissimo che cosa facevamo; vedevo le signore agitarsi coinvolgendo tutti gli astanti per prendere provvedimenti, non solo contro la sosta di quei ragazzi, ma anche contro chi dava loro da mangiare, farmaci o il resto di un pagamento al supermercato, garantendo loro ragioni buone per non togliersi di mezzo, lasciando la strada “pulita”. Quindi, anche contro di me e contro il cinquenne, che nel frattempo aveva preso l’abitudine di fermarsi a chiacchierare con tutti, consentendomi, a mia volta, una buona rete di supporto di instant babysitting se dovevo fare una commissione al volo in farmacia, o se dovevo prendere una cosa veloce al supermercato e lui non aveva voglia di venire con me.

Quel giorno, davanti a quelle persone, per la prima volta ho chiesto alla fornaia che mi dividesse i sacchetti, esplicitando per chi fossero. E uscita mi sono fermata anche io a chiacchierare con quel ragazzo, sperando segretamente, anzi, che mi vedessero in tanti, e poi lo ha raccontato ad altri genitori e ho lasciato che lo facesse mio figlio, che fino a quel momento inibivo schermendomi. Così ho scoperto qual era il nome di quella faccia tante volte vista, ho scoperto che non mangiava prosciutto perché islamico e che il pane lo teneva per i suoi bambini, ma che per la piccolina che aveva un problema ai denti era troppo duro e che in generale preferiva qualcosa di dolce per sé, perché gli dava zuccheri e perché se no gli veniva troppa sete durante il giorno. E poi, perché gli piaceva di più. Nei giorni seguenti, mi sono accorta che di fianco a quello e agli altri ragazzi della via, iniziavano a comparire altri sacchetti e che alcuni commercianti della zona avevano iniziato a mettere inserzioni di prodotti specifici che potevano essere regalati a chi volesse donare qualcosa di veramente utile e richiesto da quelle facce tante volte incrociate fuori di lì, finalmente con un nome. Erano persone benestanti come me? Probabilmente no, o forse sì, non è importante, erano persone che hanno trasformato il loro diritto di poter fare qualcosa (anche di piccolissimo) in un dovere.

Non so se questa della tradizione popolare della Befana possa essere metafora della forma che ha assunto il dono benefico negli anni, mi pare in un certo senso di sì: vien di notte, non si chiede che cosa vogliano i bambini, porta anzi in quantità e in qualità cose del tutto inadatte (quante carie le caramelle che i turisti propinano ai bambini che incontrano nei loro viaggi nel terzo mondo, senza preoccuparsi di chi le curerà?). La Befana vien di notte, vi giudica e sceglie se vi meritate o no e che cosa. È vestita pure male, lei, a differenza dei Re Magi, e dev’essere anche brutta, mortificata nell’aspetto. Ma perché non ricordarci che il nome originario di questa festività è “Epifania”, che ha a che fare col rendere manifesto, col valore di indicare, mostrare, illuminare? Che abbiamo di più? Sì, forse, anche. Che abbiamo di più economicamente? No, non solo, non più.

Ho voluto raccontare questa storia, questo giorno, perché mi pare che per quanto privata, racconti, di come adesso si stiano trasformando i modi pubblici della beneficienza forse proprio come reazione a questo “adesso” dichiarato razzista e intollerante e chiuso. Perché, al di là dell’aspetto narcisistico da una parte, e al di là del senso di colpa dall’altra parte, in un mondo in cui siamo bombardati dal fatto che tutti epifanizzino sempre più i fatti propridi nessun reale interesse, raccontare quello che si fa per gli altri, forse è davvero l’unica cosa che può creare un contagio virtuoso:che lo si faccia per egoismo, per garantirsi una qualche forma scaramantica di risarcimento futuro, per espiare l’aver avuto tanto, troppo, per farsi belli, per protesta contro chi la pensa diversamente da noi, io penso che sia venuto un tempo nuovo e manifesto per la beneficienza, in cui la mano che sa, passi parola all’altra e ad altre e a sempre più mani e facce e nomi. E questo è anche il mio augurio per l’anno che è appena iniziato.

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