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“Solitudini connesse” fra web e realtà: intervista all’autore Jacopo Franchi
La rete è qualcosa di invisibile, i social network una comunità virtuale che ha assunto, nella nostra percezione quotidiana, un’importanza pari – se non superiore – alla comunità reale. Viviamo in relazione alle informazioni che riceviamo dal web, abbiamo la possibilità di coltivare, contemporaneamente, un’infinita serie di rapporti: siamo in un tempo e in uno spazio e, contemporaneamente, altrove. Siamo noi e l’immagine di noi che decidiamo, più o meno consapevolmente, di condividere con una comunità di persone con le quali non ci comportiamo da “amici”, ma da conoscenti, spettatori, attori. La rete ci offre infinite opportunità di conoscenza, ma ci pone anche di fronte ad un mondo dell’informazione non mediato, dove vero e falso possono coesistere senza alcuna distinzione, dove sta alla nostra preparazione – spesso analogica – scremare ciò che è davvero opportuno fruire e condividere. Di questo e molto altro parla il libro “Solitudini connesse: sprofondare nei social media” di Jacopo Franchi, umanista e social media manager che da tempo si interroga sul tema del delicato rapporto fra reale e virtuale.
Abbiamo chiesto all’autore di rispondere ad alcune domande sul suo saggio e su quello che, ad oggi, appare come un territorio molto battuto, ma forse davvero poco esplorato con occhio scientifico.
Qual è stato il percorso che ti ha portato a realizzare una così ampia riflessione sul tema dei social network e dell’iperconnessione dell’oggi?
Il mio lavoro di social media manager, che mi ha dato la possibilità di studiare da vicino i social media e mettere alla prova costantemente le loro possibilità… e i loro limiti. Credo che esista oggi uno iato importante tra quello che i social promettono, e quelle che sono le effettive opportunità offerte agli utenti dal punto di vista delle possibilità espressive, relazionali e di auto-misurazione della propria attività. È la constatazione di questo divario tra aspettative e realtà dei social all’origine del mio libro, “Solitudini Connesse”.
Una volta, parlando di libri, film, esperienze di viaggio, si parlava, per gli individui, di educazione sentimentale. Oggi quanto è influenzato questo percorso di formazione intima dalla presenza dei social network?
Moltissimo. Come tutte le tecnologie, i social ci consentono di accelerare esponenzialmente l’esperienza del mondo all’interno di un’unità di tempo altrimenti limitata. Se lo zapping televisivo ci consentiva un tempo di osservare lo scorrere degli avvenimenti a partire da una decina di diversi punti di vista (quanti erano i canali televisivi a disposizione, ad esempio), oggi i social ci consentono di osservare il mondo a partire da centinaia, quando non migliaia punti di vista diversi, tanti quanti sono i nostri contatti. Ed è qui, forse, che si trova anche l’origine del nostro malessere: non riuscire più a distinguere dove finiscano i ricordi altrui e dove comincino i nostri, dove finisca il mondo così come ce lo descrivono gli altri e dove cominci quello che abbiamo effettivamente conosciuto con la nostra esperienza e riflessione individuale.
Mondo adulto e nativi digitali: due approcci profondamente diversi alla rete. Da una parte chi è cresciuto senza la connessione continua, dall’altra chi non ha mai provato l’isolamento completo dalla rete. Quali sono le similitudini e quali le differenze di approccio fra questi due mondi nella vita di tutti i giorni a tuo parere?
I social offrono dei “luoghi virtuali” all’interno cui i ragazzi e le ragazze possono sfuggire, almeno per qualche ora, all’osservazione vigile dei più grandi. Non si spiegherebbe altrimenti il successo di Instagram tra i giovanissimi di oggi: ora che gli adulti hanno colonizzato Facebook, i figli e i nipoti sono emigrati in un social dove genitori ed educatori ancora non sono presenti in massa. Credo che le differenze si spieghino tutte a partire da questo movimento continuo di fuga e rincorsa, in un mondo dove gli stessi smartphone che consentono l’accesso ai social sono allo stesso tempo lo strumento che usano gli adulti per non perdere mai di vista i propri ragazzi (tramite app di geolocalizzazione, messaggistica istantanea, app di controllo a distanza eccetera). Gli adulti inseguono i giovani: non necessariamente i propri figli, ma li inseguono nel modo di comportarsi, di apparire, di comunicare, seguendo un percorso di infantilizzazione e di prolungamento dell’adolescenza che è cominciato prima della comparsa dei social e che ha trovato in questi ultimi forse la sua massima espressione.
Fake news e comunità: pensi possa esistere un percorso di formazione in grado di difenderci dai rischi di una disinformazione misconosciuta e costante?
I social hanno ridotto, fin quasi allo zero, il costo di produzione e distribuzione di fake news. Tutti possono crearle o contribuire a diffonderle. Allo stesso tempo, non tutti sono in grado di riconoscerle o di smentirle. A questo si aggiunge un ulteriore grado di complessità: tanto più una fake news riceve “like”, commenti, condivisioni, tanto più essa acquisisce visibilità per effetto degli algoritmi dei social media. Essere consapevoli di questi meccanismi è un primo passo per maturare una maggiore consapevolezza circa i rischi di queste piattaforme. Anche perché i social, oggi come oggi, sembrano interessati a scrollarsi di dosso la responsabilità di aver costruito un sistema che tende a dare maggiore visibilità ai contenuti più dibattuti proprio perché incompleti, manipolati, o del tutto falsi: in questo senso, la scomparsa (annunciata) del numero di “like” da Facebook e Instagram va letta come la scomparsa dell’ultimo segnale empirico che ci consentiva di distinguere tra un contenuto più visibile di altri perché rilevante, e un contenuto visibile “solo” perché diventato virale. Senza i “like”, diventa più difficile riconoscere a posteriori gli “errori” dell’algoritmo nel rendere virali contenuti che non dovevano diventarlo (perché non abbiamo più alcun metro di misurazione quantitativo della loro visibilità).
Spazi di evoluzione futura: quali pensi possano essere i futuri possibili scenari del rapporto on/off line anche considerando le attuali riflessioni politico/sociali sull’identità digitale, il cyber bullismo, la crescente peso del mercato digitale?
Non arriveremo mai a una completa fusione tra vita “on” e vita “offline”. Quello che stiamo facendo, con i social media, è digitalizzare una parte crescente dell’informazione e dell’esperienza umana: l’offline alimenta l’online, la nostra esperienza del mondo fisico contribuisce a creare la nostra identità digitale, ma noi non possiamo vivere unicamente come corpi “digitali” senza un supporto fisico. Viviamo esperienze, acquisiamo nuove conoscenze, produciamo idee e iniziative che riversiamo sui social per migliorarle, metterle alla prova, costruirle insieme ad altri. Il problema, tuttavia, è che il modo in cui questo gigantesco flusso di informazioni viene organizzato e distribuito passa per un algoritmo di cui ignoriamo tanto le modalità di funzionamento quanto gli effetti più nocivi e profondi. Soprattutto sulle nuove generazioni. Rendere “visibili” gli algoritmi, sottoporli a misurazioni esterne di entità certificate, renderli meno pervasivi e omologanti, penso che potrebbe essere un primo passo per costruire un mondo digitale più sano e accessibile, anche da chi non ha le stesse competenze- o semplicemente lo stesso tempo a disposizione di altri – per comprenderlo.
J. Franchi, Solitudini connesse, Agenzia X, 2019
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