Costume

Settant’anni a costruire la pace, e tutto intorno non c’è che conflitto

16 Gennaio 2021

I fatti di Capitol Hill e il blocco degli account del presidente Trump, hanno dato luogo in questi giorni a una prolificazione enorme di considerazioni e interpretazioni sullo stato attuale della dinamica politica e dei suoi rapporti con l’informazione.

Tendenzialmente per la quasi totalità, i pareri espressi si sono rivelati scontati, banali, dichiarazioni di circostanza più o meno inutili, o comunque lontanissimi da qualsivoglia vera “analisi” o “ricostruzione”, vincolati, in ultimo, all’atto obbligato dell’assumete una posizione.

Di fronte ad eventi di simile portata, quello che a ciascuno è stato chiesto, è stato né più e né meno di “schierarsi”, prescindendo da qualsivoglia esortazione ad interrogarsi e a comprendere. Del resto, cosa c’è da comprendere? Per alcuni è evidente che Trump è un sovranista, razzista, sessista e antiecologista, e che come atto finale della sua presidenza ha scelto perfino l’incitazione alla violenza, con finalità sovversiva, contro quella che globalmente e in coro, hanno tutti definito “la più alta istituzione democratica”. Per altri, i suoi sostenitori, è un eroe solo che con coraggio, contro i “poteri forti” e il deep state, combatte in uno scontro apocalittico le forze del male, la cui esatta definizione si avvale di un elenco di aggettivi così folto e particolare che preferisco esimermi dal riportarli per non ritrovarmi ad essere o troppo prolissa, o troppo parziale.

Insomma, stando alla qualità dei discorsi, l’attualità è semplice, così semplice che a quanto pare, basta affermare che il 46,09% della popolazione statunitense con diritto di voto, è composta da quei “dementi” di Qanon! Certo che però, al di là degli appellativi che possiamo scegliere di dare agli elettori di Trump, dovremmo anche ad un certo punto considerare che non sono affatto una percentuale esigua, e cominciare a chiederci per quali ragioni leaders di simile stampo e caratura raccolgano un così ampio consenso…

Del resto, non soltanto negli Stati Uniti stanno riemergendo personalità che propinano una visione della politica, della società e del “potere” analoga a quella trumpiana , e questo a parer mio, dovrebbe essere fonte di preoccupazioni ben più serie di quella di postare sul proprio profilo il meme più aspramente satirico della giornata, o la battuta più arguta.

In realtà penso che discutere di politica prescindendo dalla storia equivalga più o meno a scegliere come nel calcio, la squadra tra quelle in lizza per cui fare il tifo, una scelta le cui ragioni non necessariamente e men che meno obbligatoriamente, si ispirano al criterio della ragionevolezza. Ma la storia è complessa, e a conoscerla non si perviene studiando un pugno di guerre sui banchi delle scuole superiori, né selezionando i più graditi racconti sparsi di chi ci è vicino, simpatico, o caro; e nemmeno affidandosi alla spontanea ed emozionale aderenza o comunanza a una dottrina.

Intanto, probabilmente, un buon punto di partenza sarebbe il conoscere che secondo le ideologie classiche era considerato fisiologico avere dei “nemici”, e anche, come scriveva E. Voegelin, che tutte le ideologie sono eredi della “tendenza gnostica” a purificare il mondo, e dunque tutte si traducono in una concezione escatologica della storia e in una teologia civile. Posta quindi la conoscenza della dinamica novecentesca di “sacralizzazione della politica” -che fa per altro da contrappunto alla nietzschiana “morte di Dio”-, si comprende, e sarà importante per il prosieguo, in che modo idee politiche e filosofiche si traducono in morale pubblica e sviluppano una vera e propria ortodossia civile, non senza scomuniche ed eresie.

La religione laica che più di ogni altra si è sviluppata in epoca moderna, e dunque già a partire dal Settecento quando di “religioni laiche” si cominciava appena a parlare, è quella “progressista” secondo cui la civiltà umana tende ad evolvere perfezionandosi attraverso un percorso politico, dunque non in maniera spontanea ma secondo un programma. Il “progressismo” ha ispirato tutte le ideologie dell’epoca moderna e contemporanea, perfino i totalitarismi anche se a molti sembrerà strano, sempre fedele al principio di poter e dover colmare con l’azione politica, le lacune della natura umana.

Dunque, dal liberalismo alla democrazia, dal socialismo al comunismo all’anarchismo finanche al nazionalismo al fascismo e al nazismo, il progressismo è diventato, come scrive E. Capozzi, “l’essenza stessa dell’ideologia occidentale”, da cui deriva un’interpretazione della modernità come momento perpetuo di una “svolta radicale”. Da qui, probabilmente, anche la perenne e messianica attesa di una imminente rivoluzione, e il “mito” della rivoluzione.

Se però l’ideologia progressista è stata fino alla seconda guerra mondiale attiva in una cornice prevalentemente tecnologica e socio-economica, negli anni Cinquanta si verifica un importante mutamento che gradualmente la proietta verso un orizzonte “culturale” che troverà la sua compiuta definizione, o la sua più eclatante dimostrazione, nella controcultura esplosa con la protesta del Sessantotto.

Se il Settecento è stato, con l’Illuminismo e la rivoluzione scientifica, l’apogeo del processo di strutturazione della “razionalità occidentale”, che è stata a sua volta culla dell’ideologia del progressismo, già nel secondo Ottocento si metteva in moto un processo inverso di “irrazionalismo” e destrutturazione della “ragione europea” attraverso una pluralità di fenomeni artistici e culturali. Fenomeni proseguiti poi in quel Novecento che è presto caduto vittima di grandi crisi economiche, politiche e sociali, drammatici fallimenti che hanno indotto al deperimento delle aspettative e nel secondo Novecento, ad una critica “differente” e molto più radicale della cultura occidentale. Una cultura di cui, seppur critiche, le ideologie ottocentesche e del primo Novecento avrebbero invece ancora voluto salvare la migliore eredità: quella “razionalità condivisa” che si muoveva attraverso il fil rouge della cultura classica, del Medioevo cristiano, dello Stato moderno, della rivoluzione scientifica, e dell’industrializzazione.

Col secondo Novecento al contrario, pur superato ottimisticamente l’immediato dopoguerra grazie alla ricostruzione e al boom economico, in un secondo momento, preso atto dell’olocausto e delle bombe nucleari, in un clima di guerra fredda e decolonizzazione, con la nuova guerra in Vietnam, le crisi petrolifere, e la prima coscienza dell’impatto antropico sull’ecosistema, ogni residuale fiducia nella radice positiva della cultura e della “razionalità” occidentale viene meno, e la corrosione nichilista dell’umanesimo europeo si ripresenta con rinnovata violenza.

Si fa strada un “sentimento” che sfocerà presto in quel che alcuni studiosi hanno definito “autofibia occidentale”: odio per tutti gli aspetti fondanti della civiltà e della storia cui si appartiene. L’identificazione degli occidentali con la storia della loro civiltà, finirà nel secondo Novecento col soccombere al “senso di colpa” e caratterizzarsi come radicale atto di accusa e ripudio. R. Scruton parlerà addirittura di “oicofobia” (avversione per la propria origine), e il già citato E. Capozzi ricorderà -e questo è un passaggio di sostanziale importanza- che all’autofobia corrisponde per simmetria un’allofilia, cioè la valutazione pregiudizialmente positiva delle civiltà e delle culture non occidentali, che diventano tutte, all’improvviso e in blocco, migliori.

L’ideologia progressista del secondo Novecento sarà quindi diversa da quella che l’ha preceduta, e assumerà quella forma particolare che M. Bock-Côté ha definito “utopia diversitaria”, tale per cui l’eroe della “svolta radicale” e protagonista del futuro, è l'”altro”, aprioristicamente magnificato nel confronto con il “sé medesimo” denigrato fino al punto in cui si fa mito seducente la prospettiva catartica di un “parricidio dell’Occidente”.

Aveva scritto Schopenhauer: “Perché niente è più certo, che nessuno può mai uscire da se stesso, per identificarsi immediatamente con le cose distinte da lui[…]”, ma non ne abbiamo tenuto conto.

Negli anni Settanta siamo dunque ormai in uno scenario non più progressista ma neo-progressista, caratterizzato dal completo ripudio del “way of life” occidentale, ivi compreso, se non per primo e soprattutto, il tratto che ne è più marcatamente distintivo in comparazione ad altre civiltà del globo: l’inarrestabile progresso della tecnica in ogni sua applicazione, della cui “materia” si sostanzia il cosiddetto “divario” tra il “primo mondo” ed ogni altro luogo che ne resta escluso. È la tecnica che, avendo permesso l’esponenziale crescita dell’attività agricola, industriale, economica, e finanziaria, è stata di fatto lo strumento della prevaricazione e del dominio imperialista. H. Marcus, anche detto il filosofo del “gran rifiuto”, si opporrà con forza alla “società tecnologica”, proponendo invece l’idea di una società come “opera d’arte”, dominata dalla fantasia.

Siamo pertanto in uno scenario definito anche post-materialista, in cui si costituisce una nuova compagine delle élites borghesi, la cosiddetta borghesia “della conoscenza”, che subentra e si affianca alla più anziana borghesia agraria, commerciale e industriale, e infine primeggia; una élite che si ridefinisce culturalmente come classe ribelle e antisistema, pronta a sposare le più svariate cause rivoluzionarie in un contesto di relativismo totale e di una modernità che Z. Bauman definirà “liquida”, cioè caratterizzata da società dalle identità mutevoli e senza radici, determinate non da eredità naturali, culturali e storiche, ma esclusivamente da scelte soggettive di autodeterminazione.

J.P. Sartre parlerà non più di umanesimo, ormai riletto e rinnegato come giustificazione del saccheggio imperialista nella prefazione a F. Fanon, ma di “umanismo”, intendendolo come scelta della militanza politica fondata non più su una opportunistica e predatoria razionalità programmatica, ma sullo slancio emotivo, e dunque come adesione empatica e solidale alle rivendicazioni degli sfruttati e gli oppressi.

Il processo di decolonizzazione rileggeva e rilanciava il marxismo nel terzomondismo, traducendo la lotta di classe in antimperialismo, e l’Illuminismo verrà criticato dalla Scuola di Francoforte come “razionalità strumentale finalizzata al dominio”, decostruendo completamente il percorso costitutivo dell’identità culturale europea e atlantica.

Il rifiuto dell’etnocentrismo dei movimenti underground, forse inconsapevolmente, proseguiva coerentemente e di pari passo al globalismo dell’industria hi-tech di Silicon Valley (nel solco comune della deterritorializzazione) e all'”orientalismo” (inteso da E. Said come rappresentazione stereotipata dell’Oriente -ma anche del Sud del modo aggiungerei io-) della nuova borghesia che simpatizzava per posizioni politiche “sovversive” e sosteneva cause estranee alla sua condizione sociale di riferimento, elette come proprie in base a criteri etici o estetici, facendo della militanza un’attività di speculazione teorica, critica erudita, socializzazione e “piacere”.

Si tratta della borghesia che T. Wolfe definirà nel 1970 “radical chic” e che, in qualità di classe dirigente ed élite culturale, ha veicolato la trasmigrazione della controcultura underground “antagonista” in cultura mainstream massificata, e anche, stando al tempo libero e alla disponibilità economica, l’ibridazione tra relativismo culturale ed edonismo, operando di fatto l’imporsi, come scrive E. Capozzi parlando di Homo gaudens, del “desiderio come nozione centrale della definizione del soggetto nei sistemi democratici”, non senza richiamarsi all’approccio freudiano al concetto di “repressione”, e ai suoi effetti.

La “cultura pop” e lo show business cominciarono quindi a nutrirsi avidamente dei fenomeni cosiddetti “antagonisti”, a cui di “controculturale” è rimasto ben presto soltanto il nome, costituendosi come potentissimo veicolo di una propaganda ideologica -davvero a reti unificate- capace di raggiungere anche i giovani meno o per niente politicizzati, e di inibire il dissenso ai suoi propri paradigmi.

Si postulava una società di individui uniti non più da norme, tradizioni e istituzioni generate da complessi processi di sedimentazione, ma da istinti, emozioni e desideri comuni, estemporanei, nella convinzione che annientati i condizionamenti esercitati dalle sovrastrutture, sarebbero scomparsi anche i conflitti e le prevaricazioni, e che le “pulsioni” e lo “stato di natura” non conducessero alla guerra come affermava T. Hobbes, ma al paradiso ritrovato.

In uno scenario liquido e indeterminato, il piacere inteso come unica ed ultima verità soggettivamente conoscibile e oggettivamente valida, veniva quindi assunto come nuovo metro di giudizio del progresso, e si confluiva verso quella che T. Wolfe e C. Lasch definiranno “epoca del narcisismo” di massa; un’epoca di identificazione tra pulsione e diritto, dominata dall’ideologia dei “desideri sovrani” e dal libertarismo biopolitico, nel contesto, come scrisse A. Del Noce, di una “totale de-sacralizzazione della vita umana associata”.

Paradossalmente infatti, il neo-progressismo, proprio per il suo aver inseguito un’idea “primitivista” di individuo “naturale” ritrovato sotto le macerie delle sovrastrutture culturali, economiche, storiche e sociali, ha ridotto quello stesso individuo al solo insieme indeterminato di pulsioni e desideri che però, alla prova dei fatti, non sono stati l’epifania di una riconquistata radice unitaria, né tantomeno atti ad esprimere una “comune umanità” intesa come percezione e interpretazione concorde della realtà, contribuendo quindi, a dispetto delle intenzioni, a minare le basi “civili” di quella stessa fratellanza interculturale che perseguiva -e per il cui perseguimento ha sacrificato ogni “vincolo d’appartenenza” e “contratto sociale”- confermando suo malgrado che allo stato di natura corrisponde più l’attempato “bellum omnium contra omnes” che il nuovo paradigma “peace and love”.

La nuova coincidenza tra identità e scelta soggettiva, che avrebbe dovuto produrre la pace interiore e sociale, ha prodotto invece la cultura del “voglio dunque sono”, una cultura in cui l’essere umano non è più definito ontologicamente, ma determinato dalla rivendicazione soggettiva di “auto-narrazioni persuasive” che si moltiplicano e frazionano incessantemente, rendendo quasi impossibile, o comunque funambolica e labirintica, la dialettica tra uguaglianza, diritti e libertà, soprattutto in un contesto che ha ormai completamente decostruito, nel rifiuto della cultura occidentale, le fondamenta giuridiche della conciliazione tra individuo e società, e che ha reso il diritto internazionale poco più che un’astrazione, un ologramma che aleggia su realtà in cui non si cala e non si incarna.

Non a caso negli anni Novanta, a dispetto dell’ambizione interculturale, sono riesplosi violentissimi i conflitti identitari e le istanze separatiste, dimostrando, contro la “vulgata” neo-progressista, che le “comunità autopercepite” inevitabilmente esistono, che ciascuna si fonda su principi sovente contrapposti e incompatibili rispetto a quelli di altre, e che nel contesto di un relativismo radicale, ognuna rivendica pari legittimità.

Da qui, e dalla imperante dottrina politicalcorrettista istituita ad autoritario “servizio d’ordine” e “controspionaggio” in difesa dell’utopia diversitaria, dalla concezione integralista e dogmatica della sua ideologia, è progressivamente deflagrata la reazione identitaria che, per dirla con S.P. Huntington, è forse niente più che la volontà o l’esigenza di tornare a concepire la o le “civiltà” come complesso di cultura, consuetudini, religione e costume, o quantomeno a poter esprimere che così sembra, senza per questo esser letti retrogradi o xenofobi.

Si dovrà pur prendere atto, ad un certo punto, che in moltissimi si sono accinti a voler ritrovare e recuperare, nella sovranità degli Stati, l’ultimo baluardo di “appartenenza” ad un gruppo di “simili”, e l’ultimo presidio di resistenza alle transnazionali élites oligarchiche.

Lo si dovrà fare perché è a partire da questa nostrana e militante oicofobia che ci siamo ritrovati a dover assistere, in assenza di spazi dialogici utili a riconsiderare gli estremismi neo-progressisti, alle recrudescenze di quelli che chiamiamo razzismi, fascismi e sovranismi, al revival repubblicano, alla popolarità di Salvini, e alla presidenza Trump!

L’ideologia diversitaria, con la sua ortodossia identitaria, con la sua rivendicazione di uguaglianza perseguita al di fuori di una cornice di valori condivisi e deprivata da sedimentazioni storiche, ha distrutto il concetto stesso di relazione dialettica e tolleranza, e così facendo più che sanare i conflitti, li ha esasperati.

In molti a quanto pare non hanno accettato l’ideale di un essere indifferenziato, cangiante e neutro, né il vuoto pneumatico di principi tutto intorno alle dottrine e agli “standard” delle comunità digitali globali, il cui peso economico e politico ha ormai raggiunto e superato quello del presidente (democraticamente eletto) della più “potente” tra le nazioni del globo.

Le forze populiste andrebbero forse più che snobisticamente ridicolizzate, riconsiderate -alla luce del discorso fatto fin ora- come il tentativo, maldestro ma non ingiustificato, di mettere un argine alla deriva autofobica dell’Occidente, e anche alla deriva cesaro-papista dell’utopia diversitaria, tale per cui chi non la introietta e non la sposa senza riserve, non è più soltanto un avversario politico ma, per dirla in termini coerenti al suo stesso irrazionalismo, un umano cattivo. L’ideologia neo-progressista e si è infatti auto-definita e incoronata come unica via di giustizia e di pace, propagandando che tutto il resto non è nient’altro che ignoranza, violenza e odio. Ogni perplessità verso il suo credo è vista come sospetta esitazione, e ogni critica aperta è una comprovata aggressione.

Ricordo i miei studi sulla tratta degli schiavi. Da adolescente, infarcita di oicofobia militante e mainstream, l’avevo immaginata essersi svolta letteralmente per rapimento! E invece dovetti scoprire che le tribù africane erano solite rendere schiavi i prigionieri di guerra, e utilizzare la riduzione in schiavitù anche come forma di punizione all’interno di una stessa tribù. Dovetti scoprire che gli schiavi sbarcati nelle Americhe erano stati comprati, e che a venderli erano stati altri neri. Dovetti scoprire che i portoghesi e gli inglesi non erano soliti addentrarsi nell’entroterra, e che trovavano gli schiavi nelle “barracoons” lungo la costa, dove arrivavano in marcia legati a gruppi di quaranta organizzati da trafficanti per lo più nigeriani. Che rapimenti si, c’erano stati, ma erano stati opera di chi invece che comprare e rivendere, aveva poi preferito ottenere gratis “la merce” per massimizzare i profitti, vendendola e basta! Dovetti insomma scoprire che alla tragedia del black holocaust, gli stessi africani non furono estranei!

Sto facendo apologia o derubricando? No. Sto dicendo che ne rimasi sconvolta!

Che l’uomo bianco del Nord-Occidente fosse un mostro era quel che già mi avevano insegnato; che invece potesse esserlo anche un uomo di colore del Sud del mondo fu un disincanto! Alla luce di questa prima consapevolezza dovetti poi effettivamente constatare che può essere una gran brutta persona anche un nero o una nera, come pure, un o una ebre*, una persona lgbtqiapk, diversabile, povera, migrante, o mussulmana, e che insomma appartenere ad una “minoranza” o aver subito discriminazioni non può essere sempre e comunque un salvacondotto. Allo stesso modo, nessuno è solamente l’errore che ha commesso.

Poi nel tempo ho anche capito che non sono “colpevole” di tutte le umane sofferenze per il fatto di essere bianca, europea, eterosessuale, istruita e stipendiata, e verificato che il riscoprirmi “innocente” non ha intaccato il mio slancio a prodigarmi per un mondo migliore. Come non ha pregiudicato la capacità di rilevare ingiustizie e speculazioni, e di sentirmi indignata di fronte agli egoismi e alle prevaricazioni.

Scriveva K. Popper: “All’uomo irrazionale interessa solamente avere ragione […]”. Penso non fosse in errore, e che per questo dovremmo tutti impegnarci a recuperare la facoltà del “razionalizzare”. Si dice spesso che i populisti guadagnano terreno parlando “alla pancia” delle persone, io credo invece che lo facciano tutti, sono solo gli appetiti ad esser diversi.

Monica Scafati

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