Costume

Se l’Italia è un paese di merda, lo sono anche i suoi cittadini

27 Settembre 2017

Per molti anni ci siamo mondati la coscienza con quella storiella che i cittadini fossero meglio, molto meglio, dei loro governanti. Una diseguaglianza truffaldina che ci ha permesso di separare le responsabilità personali dalla gestione, in molti casi scellerata, della Cosa pubblica e che ha fatto montare a dismisura quel sentimento artificiale di anticasta che poi ha costituito il più grande alibi sociale e istituzionale dagli anni 90 in poi. Nel tempo, infatti, nessuno è stato in grado di dimostrare in che modo reale si potesse tradurre questa diseguaglianza, che semmai apparterrebbe a forme di governo più liquidatorie e poco democratiche. In tempo di democrazia, quella che noi abbiamo vissuto e continuiamo fortunatamente a vivere, si tengono libere elezioni, a cui partecipano liberi cittadini, perfettamente in grado – se lo desiderano – di cambiare i destini politici e personali di rappresentanti non all’altezza della situazione. Il fenomeno del Movimento Cinque Stelle, se vogliamo, ha una perfezione stilistica: conseguenza di quel sentimento di cui sopra, ha potuto vivere di rendita sino al momento in cui non è stato chiamato a governare qualcosa e qualcuno. In quel momento, fattosi carne e sangue politica, ha preso ben presto i difetti più collettivi e distintivi di quella politica malata che aveva combattuto e grazie alla quale aveva raggiunto Roma e le sue nefandezze. Anzi, forse non li ha neanche “presi”, li aveva in nuce, stavano lì buoni buoni in attesa che una situazione “giusta” li richiamasse in superficie. Nel senso che molte persone e identità e caratteri singoli non è detto, non è per nulla detto, che poi compongano tutti insieme una comunità virtuosa.

Per la gioia dei gazzettieri e anche per tamponare il nostro atavico senso di colpa, ogni tanto emerge in questo Paese uno scandalo classico, quel caso di scuola che è presente, ingiallito dal tempo, persino sui quaderni delle elementari quando la maestra racconta ai bambini la favoletta di un concorso truccato, della raccomandazione del prete, e onestamente quale caso di scuola potrebbe essere più impeccabile e stilisticamente apprezzabile di una grande retata di professori universitari e per di più tributaristi! Questi casi, generalmente, producono esattamente quel sentimento di cui sopra: alimentano l’anticasta, ci fanno credere d’essere miglioridirgli altri, sono in buona sostanza il meraviglioso ombrello protettivo sotto il quale ripararsi in attesa che spiova. Per chi, come chi scrive, ha avuto un padre tributarista, avvocato tributarista, capirete che il racconto di questa retata ha assunto un certo interesse innanzitutto per i nomi coinvolti, e poi per i meccanismi (che sono sempre, sempre, quelli), infine per le sagge parole che generalmente alimentano il dopo alla ricerca di soluzioni possibili (se volete sapere se Cantone ha detto la sua, sì, l’ha detta. Ha parlato, per esempio, di inserire nelle commissioni soggetti/professionisti esterni ai professori). Questo nuovo scandalo non ci dice in realtà molto di più di quanto già non sapessimo: abbiamo anche l’eroe-ricercatore che dice di no al Cattivo e che fa partire tutta l’inchiesta. A suo grande merito, va ascritta la frase che possiamo assumere a manifesto di questo Paese di merda che è l’Italia: «Dai, non fare l’inglese, fai l’italiano». È una frase perfetta, racconta meglio di cento editoriali quale considerazione ha il cittadino della sua meravigliosa terra. L’italiano dunque ha una sua specificità, inutile negarlo e poi come negarlo, è votato culturalmente alla mediazione verso il basso, che alle mediazioni verso l’alto sono deputati Paesi, appunto, leggermente più virtuosi. Il cittadino italiano non è, dunque, meglio del suo Paese. Se l’Italia è, acclaratamente, un Paese di merda, a maggior ragione, e inevitabilmente, lo sono i suoi cittadini.

In Rete, come per ogni altra cosa, si è generato un largo dibattito sulle proprietà dei cittadini, di noi cittadini. Le categorie interessate hanno fatto subito sapere d’essere molto meglio di quei professori truffaldini, mostrando in realtà il difetto classico delle corporazioni e tradendo lo spirito migliore di una possibile rivoluzione dal basso, che semmai dovrebbe partire non dalla stretta appartenza professionale, ma dalle proprie convinzioni etiche, al di là di ogni professione praticata. In tutta sincerità: ma chissenefrega se ci sono professori migliori di quella pattuglia di stronzi che distribuiva posti ai protetti di studio, qui si tratta di una reputazione collettiva da riprendere se ancora lo possiamo fare e se c’è , soprattutto, spazio sociale per farlo. Perchè il professionista che (giustamente) vuole smarcarsi dalla fogna di una categoria che appare corrotta, ha poi mille altre occasioni per mostrare il vero volto di un cittadino degno di questo nome. In queste occasioni come si comporterà? E parlando di noi. Se molti giornalisti smarchettano sui giornali, e la cosa è di una evidenza palmare, è del tutto inutile indignarsi. Parrebbe persino infantile sottolinearlo, visto che l’andazzo è quello. È il resto della vita che fa punteggio, come ci si comporta fuori dal nostro stagno, se le cose buone e belle che ci diciamo all’interno delle redazioni hanno poi una minima aderenza con i comportamenti esterni. E su questo, se permettete, molti dubbi restano.

Si possono fare lunghi simposi per stabilire dove sia nata la magagna. Se dal mezzo secolo democristo e corporativo, o da altre situazioni sociali che si sono deteriorate nel tempo. Ma quel che ormai appare definito e che possiamo consegnare alla storia è l’assunto centrale: i cittadini non sono meglio dei loro governanti, non ci sono due Italie, non esistono velocità etiche diverse, non sono mai esistite. Il più grande degli alibi è malinconicamente crollato. Se l’Italia è un Paese di merda, corrotto nelle sue fondamenta, e acclaratamente lo è, sono di merda anche i suoi cittadini.

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