Costume

Se la nostra “altra metà” non esiste…

23 Novembre 2017

Nel Simposio di Platone si narra il mito delle due metà: in tempi primordiali l’uomo sarebbe stato un essere sessualmente indistinto e perfetto, un’entità a cui non mancava nulla. Zeus, invidioso di tanta perfezione, come ogni mitica tradizione vuole, decise di dividere quest’essere e generare due metà alla perenne ricerca di un congiungimento. Il desiderio di trovare la propria “anima gemella”, la metà nella quale rispecchiarci e completarci, nasce a partire da questo mito, che molte altre cose avrebbe voluto dire ed è, a torto, ricordato unicamente come il padre dell’eterna e infelice quête amorosa.

Sono passati più di 2.400 anni da questo racconto e “nel mezzo”, sono passati secoli di relazioni determinate da ragioni economiche, dinastiche, di sopravvivenza familiare, di riparazione, di credo. E poi ancora due secoli buoni dominati dalle logiche romantiche (o borghesi) della relazione per amore, perfetta rielaborazione, sempre all’insegna di un’attenta analisi economico sociale delle famiglie, del mito delle due metà condito d’amor cortese e stilnovismi vari. Millenni, insomma, nei quali l’amore (e intendo con questo termine sia l’amore di coppia, comunemente intesa come pubblica e lecita, sia quello extraconiugale) doveva rispondere a precisi dettami, ben codificati e per certi versi, anche estremamente sintetici.

Allo sposo si chiedeva capacità di mantenimento della moglie e della prole, correttezza nel trattamento nei confronti di entrambi, alla sposa fedeltà, cura dei figli e della casa (o della servitù e delle relazioni sociali in caso di condizione agiata). Poesia, seduzione, complicità, vicinanza – diremmo oggi – intellettuale, non erano di principio escluse, ma non erano percepite come strettamente necessarie. Amanti, amiche, cicisbei, giocavano un importante ruolo nel mantenimento dell’ordine di coppia: quel che non si poteva trovare nel coniuge non difficilmente si ritrovava altrove.

Difficilmente si cercava nello sposo o nella sposa la proria altra metà e difficilmente si sarebbe potuto fare nel contesto di un matrimonio combinato a fini di successione o, di contro, per permettere a una famiglia di sopravvivere unendo le forze con chi aveva dimostrato per generazioni di saper produrre braccia adatte per il lavoro.

Il matrimonio borghese di epoca romantica non ha poi cambiato di molto le carte in tavola e, in fondo, a Madame Bovary si rimprovera di non aver saputo distinguere la concretezza della sua agita situazione di pace domestica da fantasticherie letterarie buone solo per finire con l’avvelenarsi. Nel suo caso letteralmente.

Poi le cose sono cambiate. I primi cenni partono nel dopoguerra. Complice il boom economico e una relativa, ma crescente, emancipazione femminile, l’attenzione di chi era alla ricerca di qualcuno con cui condividere la vita si sposta dal mero dato materiale e di “bontà delle circostanze”, all’amore. Un amore che inizia a comprendere tutto al suo interno: fantasia e serie intenzioni, passione e stabilità, amicizia e seduzione, leggerezza e progettazione.

Non solo, la persona che deve condividere queste “competenze”, deve anche compensare le eventuali mancanze del partner, smussarne gli angoli, accoglierne i difetti, ma agendo come spinta di miglioramento. Le richieste nei confronti del compagno/a sono andate via via crescendo negli ultimi decenni, anche a causa dell’idea, assai diffusa anche dai grandi e piccoli schermi, che al mondo possa esistere una persona che ci possa completare e possa bastarci per sempre.

Trovata quella persona “vivremo per sempre felici e contenti”. Per qualche anno, se va bene, perché il carico di aspettative, richieste e bisogni più o meno espressi riversato sulla relazione rischia di minare anche gli animi più votati ai rapporti.

Il concetto stesso di “dolce metà” implica una premessa concettuale che, a mente fredda, in pochi avremmo voglia di sostenere, ovvero che nasciamo incompleti e che senza una donna o un uomo – nato fra l’altro apposta per noi, per renderci finalmente ciò che siamo – non ci sentiremo mai davvero realizzati. Difficile trovare tanto sminuimento e tanta arroganza nello stesso percorso mentale: la natura infatti ci creerebbe “a metà”, ma solo per il sadico scopo di vederci impegnati con tutte le nostre forze per scovare un altro essere, generato – ovviamente! – per sistemarci. Due imperfezioni fanno una perfezione evidentemente, ma resta da capire se quel che dobbiamo ricercare sia un nostro simile (qualcuno che ci rispecchi, nei pregi e nei difetti) o il nostro opposto. Si procede allora per tentativi e, nel più fortunato dei casi, navigando a vista si incappa in una persona che ci fa pensare “ci siamo”. Ma anche le migliori epifanie, superati i primi mesi di grande entusiasmo, si scontrano con la difficile quadratura di bilancio della relazione moderna. Quando si comincia ad analizzare da vicino la persona che ci aveva colpito così tanto spesso emergono dettagli che la rendono imperfetta ai nostri occhi.

Umana, ma inadatta al compito supereroico di completarci, di riempire la nostra vita, di rispondere a domande che, noi per primi, abbiamo volentieri evitato di farci per anni.

Ed ecco che subentra il senso d’inadeguatezza – personale e/o del rapporto – germe di crisi e molla di una continua ripresa della ricerca. O di una pacifica rassegnata frustrazione.

Dobbiamo dunque rinunciare, in questo primo scorcio di millennio, all’amore? In tanti non hanno rinunciato e riescono, pur con le loro difficoltà, a portare avanti delle relazioni. Cercando sempre di ricordare che sono relazioni e non appagamento di bisogni, non modalità di compensazione, non ancore di salvezza alle nostre crisi esitenziali. Rinunciando all’idea che esista qualcuno che ci possa completare e, di contro, abbracciando invece un modello più umano di condivisione di un percorso. Prendendo a prestito il titolo di un famoso libro, qualcuno con cui correre, verso una meta però che può essere comune solo nel momento in cui è pensata e desiderata da entrambi, elaborata attraverso un percorso personale messo poi in condivisione. Rinunciando all’egoistico pensiero che “qualcuno si debba occupare della nostra felicità” e coltivando invece l’idea che una felicità per due è possibile solo fuori da un contento di do ut des.

Partendo da sé, scegliendo le proprie priorità, coltivandole si potrà forse incontrare, per un caso un po’ meno casuale di quello mosso dalla spasmodica ricerca dell’altra metà della mela, qualcuno che condivida con noi il senso del carveriano“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.

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