Costume
Sanremo e l’eterno ritorno del mediocre
Ogni anno Sanremo ci frega. Comunque: se lo guardi o se non lo guardi, se ironizzi o se approvi, se critichi o lo esalti. Non c’è scampo. È il senso di colpa collettivo e individuale. Se stai davanti alla tv sei allineato, se non lo vedi sei snob. Il web ironizza, basterà?
Il sospetto è che il rito collettivo sanremese sia definitivamente la risposta a tante domande, una sorta di oracolo, un responso divino, un sangue di San Gennaro che si coagula per portare buona sorte. Una giaculatoria collettiva, insomma, che ogni stagione dà senso e forma a premonizioni e fantasmi, e diventa traccia politica e sociale.
Qua, quest’anno, abbiamo avuto conferme, solo conferme. Sanremo 69 è l’eterno ritorno del mediocre, è l’apoteosi della conferma.
I vecchi sono vecchi, e bisogna bonariamente prenderli in giro. I giovani sono sempre molto “gggiovani”: sono cattivelli, vestiti strani, magari di pelle, coi capelli lunghi o tagliati a zero se sono più marginali. È l’imitazione dei giovani, intesi più come categoria commerciale che altro. Tutti fanno un po’ di rap o hip hop per essere al passo con il ritmo dei tempi. Il rapper non si nega a nessuno, con buona pace di quanti li credono esponenti di una controcultura. Ma anche il rap è anestetizzato, introiettato, reso pungente quel tanto che basta a scaldare la generosa platea dell’Ariston (ma salviamo l’ingenuo e sincero entusiasmo di Mahmood).
Tutti i pezzi iniziano con parole a ritmo incalzante, in crescendo continuo fino all’esplosione lirica del ritornello, e poi si ricomincia. L’amore, le parole, la fragilità, la sconfitta – sono tutti poeticamente fragili, in questo festival – la paternità addirittura il nonno, oppure la maternità, la mamma invocata da Renga.
Un mondo infarcito di infantilismo, di sentimentalismo, di languore.
Oppure ci sono quei (pochi) “impegnati”, che denunciano, che parlano di democrazia e dittature con gli sbandieratori. Servono, sono necessari: parlandone da viva, la Sinistra avrebbe festeggiato. A Roma in mattinata sfilano i sindacati e parla Landini, ma la sera c’è il sermone di Simone Cristicchi.
Le tribune si muovono: penso a quegli spettatori che tutta la sera vanno a destra e a sinistra, come se fosse una grande novità (a Disneyword lo facevano trenta anni fa) rischiando il mal di mare. Ci sono i ritrattini degli artisti che più che emoticon fanno identikit da studio di tricologia
Poi ci sono le gag comiche che non fanno ridere, i siparietti nostalgici come il patetico quadretto da avanspettacolo con Le gocce cadono ma che fa, ci sono tonnellate di silicone sparse ovunque, le luci rutilanti che cercano lo stupore a tutti i costi, neanche fosse l’illuminazione della festa di Santa Rosalia o di una discoteca alla moda negli anni Ottanta.
E Virginia Raffaele che imita le imitazioni di loro stesse che sono diventate ormai certe cantanti d’antan, in un cortocircuito del grottesco che diventa esplosivo.
Tutto prevedibile, stantio, lo ripetiamo a ogni edizione. Ci prova Claudio Bisio a far due facce, a tener su la baracca, a far Monsieur Malaussene della situazione, ma qui è dura.
E ci ritroviamo invece con gente che era già sfinita da ere geologiche. Ecco Patti Pravo, ormai tra l’alieno di Predator, la maschera di Agamennone e la statua di Ramses, che canta con un pupazzo accanto; ecco Loredana Berté che sembra Vasco Rossi con la parrucca; ecco Nino D’Angelo che non si sente ma fa ancora lo scugnizzo.
E noi siamo contenti, ci commuoviamo anche un po’, confermando la feroce sintesi di Arbasino sugli intellettuali italiani: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro.
A Sanremo sono tutti maestri, a partire da Claudio Baglioni che somiglia sempre più a Ornella Vanoni. Ma siamo contenti, gratificati a sentirlo cantare Tenco assieme a Elisa (almeno lei ha voce): una versione peraltro funerea di Vedrai, vedrai, ovviamente.
Che altro? Tutto è conferma, è pregiudizio di conferma, per la gioia di XFactor, diventato ormai il vivaio della medietà fatta professione.
È l’eterno ritorno del mediocre, magari rivalutato col tempo, come fa col vino.
L’unico guizzo – forse per questo pasticciato nei tempi e nei modi – è stato quello de Lo Stato Sociale, fuori, al freddo, con Renato Pozzetto a cantare E la vita l’è bela (guarda caso lo stesso brano dello spot Nutella che è subito seguito). Lodo Guenzi e gli altri, surreali e spiazzanti, ma mai quanto i volti dei carabinieri in divisa d’onore che si intravedevano sullo sfondo, col Pennacchio come quelli di Pinocchio, pronti a intervenire in caso di eccessiva estrosità.
C’è tempo per far pubblicità a Suor Angela – ma ci pensate che abbiamo da anni una serie Tv con protagonista una suora? – e per l’affranta e bellissima regione Liguria (oggi tiravano giù un pezzo di ponte…).
Tutto va bene, se il mondo «ci invidia e ci ammira» il Volo, e loro, in coro rassicurano a favor di telecamera: «siamo musica vera che resta».
Eccolo il paese reale, ancora i tre tenoretti come Conte, Di Maio e Salvini, ecco il nostro governo, ecco lo specchio della situazione italiana. Davvero Sanremo ci frega. Meglio di Nostradamus ci spiega chi siamo, cosa è questo governo, cosa resta dell’opposizione, chi sono gli amici e gli amici degli amici, chi fa tendenza e perché. Mi sbaglierò, ma a me sembra tanto il festival di Giggetto e di Matteo. La mediocrità nazionale fatta modello, o fatta governo. Lo slittamento nella mestizia è dietro l’angolo.
Qualcuno si salva, naturalmente, per impegno, qualità, tecnica e tenacia. Aggrappiamoci a loro.
Io aspetto il tormentone dell’estate. Sarà Irama col coretto Gospel o Achille Lauro con i tatuaggetti alternativi e il riff rock? Uau, lo ascolterò al mare. Però adesso faccio lo snob e su Enrico Nigiotti spengo la tv e vado a dormire.
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