Costume
Rifugiati e migranti
Quando nel 1943 Hannah Arendt scrive We refugees [la versione italiana si trova nel suo Ebraismo e modernità, (Feltrinelli)], il termine «rifugiato» significava un individuo costretto a cercare rifugio a causa di un atto o un’opinione politica.
Sbarcano, privati delle risorse, in un nuovo paese e cercano aiuto dai comitati dei rifugiati che preferiscono chiamarli «nuovi arrivati» o «immigrati», per contrassegnare la loro scelta. Perché si tratta soprattutto di dimenticare il passato: la sua lingua madre, la sua professione o, in questo caso, l’orrore dei campi.
Hannah Arendt esprime la difficoltà di evocare questo passato molto recente.
Niente storie d’infanzia o fantasmi, quindi, ma uno sguardo al futuro e, se possibile, previsto dal cielo piuttosto che inscritto nella terra. L’ottimismo maschera solo «la tristezza disperata degli assimilazionisti».
Anche laddove questi immigrati hanno trovato rifugio sono percepiti come «cittadini di un paese nemico».
Nel tempo di Hannah Arendt quella è un’esperienza diretta che riguarda tedeschi e italiani presenti in Francia (sostanzialmente tutti oppositori dei regimi politici dominanti in Italia e Germania, che tra il 1939 e il 1940, sperimentano la condizione di imprigionati perché considerati individui pericolosi).
E tuttavia, se molti degli elementi che sono propri di quella esperienza e di quella condizione erano già abbastanza chiari all’occhio acuto di Arendt: i rifugiati, in quel testo del 1943 rappresentavano l’ala cosciente e intellettualmente più avanzata di una condizione che fisicamente rimaneva nel luogo d’origine e che, spesso rimaneva condizione di minoranza.
Ovvero: tra Ottocento e Novecento scappa e si trasforma in rifugiato chi ha deciso di prendere su di sé la responsabilità di contrastare coscientemente il potere che lo sovrasta e sapendo che non ci sono margini di manovra.
In questo senso il rifugiato, al netto della condizione di disperazione, di solitudine o di smarrimento che innalza il tasso dei suicidi, è tuttavia una figura che ha compiuto una scelta di rottura.
Quanto di questa condizione, si chiede Barbara Sorgoni, nel suo Antropologia delle migrazioni (Carocci) è rimasta nella figura del migrante odierno?
Ci sono vari percorsi che accompagnano i processi di sradicamento che connotano il nostro tempo che modificano radicalmente la figura del migrante.
La categoria di partenza non è più quella di espulsione, precisa Sorgoni, bensì quella di migrante forzato, una condizione che non fotografa solo un rapporto tra opinioni politiche o tra identità politiche ma che accompagna fenomeni anche di altro tipo.
La persecuzione politica non è più determinante.
Si viene sradicati dal proprio luogo di origine a causa di progetti governativi di sviluppo come la costruzione di dighe, di strade, o la trasformazione radicale di centri urbani.
In quest’ultimo caso ciò che connota oggi la trasformazione radicale delle periferie o dei luoghi di alta conflittualità sociale che spesso hanno anche caratteristiche di sovrapposizione con flussi migratori.
Non solo l’esperienza della migrazione forzata riguarda anche chi è costretto a emigrare e a ricominciare una vita altrove in seguito a calamità, disastri naturali o in conseguenza di radicali cambiamenti climatici.
In quella condizione la nostalgia è un fattore che gioca un ruolo specifico.
Insieme a un altro fenomeno: chi osserva quella condizione di nostalgia da fuori non innalza il tasso di coinvolgimento positivo di inclusione verso i nuovi arrivati. Al contrario, è portato a percepire come invasione, la presenza di questo nuovo attore che improvvisamente modifica la geografia umana del proprio luogo fino a renderlo irriconoscibile.
Una condizione che tende a fornire di identità politica il concetto di territorio, di caricare di valore identitario la linea del confine.
In breve di percepire quella nuova condizione come la simulazione o la definizione di una relazione di «guerra di posizione», il cui effetto è la riscrittura delle regole della cittadinanza, delle procedure di accoglienza.
Dunque migrante acquista una dimensione non più necessariamente conseguente a una scelta politica (anche se nello sfondo quel fattore non scompare), ma include la presa in carica di altri fattori che presumono una non rottura con la propria cultura di origine, o con l’esperienza politica e culturale del proprio luogo di origine.
Il che pone un problema imprevisto: ovvero la richiesta di cittadinanza non implica un’adesione culturale volta a rinnegare la propria origine ma certifica la propria condizione di residenza geografica.
Un aspetto che complica il quadro di chi pensa ancora la cittadinanza come identità nazionale, come «Stato-nazione» e propone un percorso interculturale delle identità nazionali delle realtà statali multietniche.
Una sfida che nel momento stesso in cui si discute di cittadinanza seguendo il percorso dello «ius scholae» se quel profilo e quell’esperienza appunto vengono intesi intesa come costruzione di una identità nazionale volta a confermare il profilo della storia (e dunque dell’identità) «al passato» allude al fatto che, con molta probabilità, anche nella migliore delle ipotesi, quella soluzione non sarà che una approssimazione per difetto, su cui, poi, occorrerà di nuovo intervenire.
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