Costume

Riflessioni post Sanremo e la deriva del rispetto

Dal Festival di Sanremo, seguito e simbolicamente rilevante, provengono preziosi stimoli per interpretare lo stato, l’umore della nostra società e il suo abito mentale

17 Febbraio 2025

Il festival di Sanremo è un fenomeno di costume che per una settimana ci distrae, ci intrattiene, ci rende un po’ tutti commentatori, ci offre la possibilità di esprimere opinioni e preferenze donandoci persino l’illusione di poter decidere le sorti di un cantante, orientando attraverso il sistema del televoto l’esito di una gara. Non è del tutto vero che il Festival di Sanremo sia uno specchio fedele del Paese perché, e forse lo fanno tutti gli specchi, l’immagine risulta sempre quantomeno un poco distorta. Nondimeno, da questo appuntamento così seguito e simbolicamente rilevante, provengono preziosi stimoli per interpretare lo stato, l’umore della nostra società e il suo abito mentale.

Impegni e la necessità di dovermi svegliare presto la mattina non mi hanno consentito di guardare per intero il festival. L’ho seguito, perciò, parzialmente. In particolare ho prestato attenzione all’appuntamento domenicale, lo speciale di “Domenica In” dedicato a Sanremo”, una puntata dedicata alla kermesse musicale con commenti e interviste.

Questo articolo nasce in seguito ad una delle uscite poco felici del giornalista Davide Maggio che ha chiesto ad Elodie chi le avesse strappato il vestito poco prima di salire sul palco dell’Ariston per l’esibizione finale. Se non si può certo gridare al body shaming come è accaduto l’anno scorso quando la Rai ha dovuto avviare una procedura disciplinare nei confronti di un giornalista in seguito ad un tweet denigratorio ai danni della cantante rapper BigMama e il look con cui ha calcato il palco dell’Ariston, sicuramente fare dell’ironia sul vestito indossato dalla cantante è di cattivo gusto e, ancora, denota una strisciante, subdola, latente mentalità patriarcale.

Elodie comunica con tutto quello che ha a disposizione dunque sì un bel corpo, ma anche una testa pensante. Grave è che ancora oggi tra persone formalmente educate ed istruite, circoli l’idea che al maschio dal fisico procace si possono rivolgere apprezzamenti, mentre alle donne si rivolgono battute al vetriolo che alludono e fanno illazioni.

Nella serata finale di Sanremo, Mahmood, elogiato da Carlo Conti, canta in anteprima il singolo inedito “Sottomarini”, metafora della profondità del racconto della vita e di come vorrebbe essere visto dalle persone che ha accanto, oltre la superficie. Desiderio legittimo e posso anche crederci, ma perché se “della virilità non te ne fotte un ca…”, devi usare ancora l’organo maschile per esprimere un concetto che potrebbe essere espresso in modo sobrio, sereno, moderato?

Un linguaggio fallocentrico racconta che ancora oggi l’attribuzione del valore al mondo femminile, e il potere “concesso” dal maschio corrispondono al soddisfacimento del proprio ego.
Nell’ordine simbolico patriarcale, la differenza sessuale non viene intesa come differenza che divide gli esseri umani in uomini e donne, bensì come una differenza che fa differire la donna dagli uomini. Visto che sugli uomini – anzi sull’ Uomo che tende a sostanziarli in un concetto universale­ –  si modella l’essere umano per eccellenza, il differire delle donne dagli uomini diventa una differenza che corrisponde a una mancanza o inferiorità. Poiché possiede appieno le qualità propriamente umane, la ragione ad esempio, l’uomo è superiore alla donna che invece ne è carente. Per “natura” l’uomo è atto a comandare e la donna a obbedire. Sempre per “natura”, l’uomo occupa i luoghi della politica, mentre la donna appartiene alla sfera domestica e ai lavori di cura. Il termine natura è quello su cui i giochi linguistici dell’ordine simbolico patriarcale si fanno più insidiosi. Da un lato, infatti, le donne sembrano appartenere naturalmente all’ambito domestico e di cura perché partoriscono i figli e li allattano, procreano e nutrono, dall’altro lato, ciò che le varie epoche definiscono naturale corrisponde per lo più a ciò che esse ritengono normale, ossia conforme alla norma. La natura è insomma un concetto che dipende da un processo di normalizzazione operato da coloro che decidono le norme. Tant’è vero che, quando Mary Wollstonecraft dichiara che anche le donne possiedono la ragione, suscita scandalo. Per la società settecentesca le donne sono per natura irrazionali ed è “normale” ritenerle tali. Una donna che ragiona e pretende un’educazione adatta a essere razionali, appare contro natura e fuori da ogni norma, naturalmente.

Ovviamente la natura è solo uno dei tanti termini su cui il linguaggio patriarcale, per più di due millenni, articola il suo potere. Né l’ordine simbolico patriarcale passa attraverso i millenni come una forma monolitica e coerente. Le donne vengono posizionate all’interno dell’ordine simbolico in vario modo, per esempio come madri e come mogli in quanto essere domestici votati alla cura, oppure come prostitute e oscure seduttrici in quanto oggetto della trasgressione sessuale maschile.

Per comprovare l’evidenza e il radicamento plurisecolare di tale fenomeno, si può semplicemente ricorrere alla pubblicità e alle immagini proposte dai media alle soglie del terzo millennio. alimenti di fruizione domestica, come i biscotti per la colazione, vengono reclamizzati attraverso la messa in scena di famigliole felici con relative mamme e mogli dall’aspetto pudico e rassicurante. Le bevande alcoliche inscenano invece generalmente una situazione extrafamigliare dove si muovono donne discinte e vampireggianti.

Altro argomento emerso durante il pomeriggio musicale condotto dalla Venier è stato quello della rivalità e della competizione tra donne. Mi pare che tutte quelle invitate a pronunciarsi hanno risposto mostrandosi solidali verso le colleghe, le hanno apprezzate, hanno parlato di stima reciproca, ma non contento Davide Maggio, ancora lui, si è divertito ad infierire su Gaia Gozzi, dicendole di essere ultima al televoto. La cantante ha mostrato il suo spessore rispondendo al sedicente giornalista e a Francesca Pascale, – che nel frattempo era intervenuta parlando di una sana competizione tra colleghi – affermando che “la sana competizione è quella con se stessi e che se si guarda troppo l’orto dell’altro, si finisce per distogliere l’occhio dal proprio”. Un’affermazione in cui mi rivedo in pieno, motivo per cui mi è piaciuto tra l’altro il testo di Lucio Corsi che è la rivincita degli esseri gentili.

Corsi canta coloro che nell’incrinatura trovano la propria forma giusta, il suo è un elogio dell’imperfezione in un’epoca in cui essere forti e impenetrabili sembra essere un imperativo sociale; ci racconta che la vera forza sta nel vivere senza paura di mostrarsi per quello che si è davvero. Il suo è il canto delle piccole cose, quelle di chi ha trovato più verità nell’essere nessuno, nell’essere se stesso, cintura bianca di judo, è un invito a perdersi per riscoprirsi nuovo, è la narrazione di quella cosa straordinaria che si chiama sensibilità e che spesso viene scambiata per debolezza. In un mondo che è il trionfo dell’arrivismo più sfrenato, di ambiziosi che vanno di fretta e di furbi che aspettano al varco, dove l’imperativo è arrivare, non importa in che modo, Lucio Corsi parla di sentimenti e di come è duro il mondo per quelli normali. Il testo di Corsi ti culla mentre lo ascolti.

Nell’era della costante valutazione della performance e della competizione vissuta come pericolosa ossessione, sappiamo cosa significa ascoltare? Che sia una canzone, una confessione, un’idea, si ascolta quando anche difronte a una visione molto diversa dalla nostra, decidiamo di esplorare il mondo del nostro interlocutore, di interrogarlo per capire la sua esperienza; e questo ben prima di dare giudizi che, se sono frettolosi, si riveleranno certamente falsi e  “fuori sincrono”, non in relazione con l’altro ma solo con se stessi.

Il fatto di essere in ascolto dell’altro ci porta ad interessarci del suo mondo, a sciogliere i nodi in modo inatteso: fa sentire l’interlocutore considerato, rispettato nelle sue credenze profonde, nelle sue scelte. Un pensiero critico ci porterà ad avere un comportamento critico, parole critiche e sentimenti da “criticoni”, invece, ci condurrà ad assumere un atteggiamento estraneo al mondo dell’altro.

Su Francesca Pascale non ho un’idea, mi è sempre stato difficile immaginare come abbia potuto unirsi in matrimonio con Berlusconi – uomo cinico che ha svuotato e impoverito il linguaggio con idee sessiste ed omofobe con frasi del tipo “meglio essere appassionato di belle ragazze che gay” – ed amare una donna sensibile come Paola Turci. Ho un’idea, invece, di Marcella Bella dopo la sua affermazione, “Non vergognatevi, siate str… sempre”. Sanremo è un macrocosmo, e sebbene non sia esattamente specchio fedele, è un grande contenitore che racconta un po’ il nostro Paese pronto a concedere ampi margini all’ignoranza, all’idea di un successo effimero basato sulle visualizzazioni e alla povertà di contenuti.

“Pelle Diamante” sarebbe nell’intenzione di Marcella Bella, coautrice del testo insieme al fratello, un inno all’empowerment femminile; Marcella Bella sa cos’è davvero l’empowerment? Sa che implica un viaggio personale verso la forza interiore? E che l’autodeterminazione richiede consapevolezza, impegno e visione chiara di se stessi? Essere una donna “forte, tosta, indipendente” e avere la pelle ‘dura’ quasi come quella del “diamante” significa essere “str…”?Ma davvero si può spacciare per femminismo certe condotte stupide e svilenti, riassumendo in modo così banalmente rozzo e grossolano tutta quella lotta millenaria di rivendicazione dei diritti delle donne, passate, presenti e future?

Mara Venier era una delle attrici del film di Ozpetek, “Diamanti”, che tratta, appunto, dell’empowerment; una storia in cui un gruppo di donne sono unite non solo dalla passione per il loro lavoro, ma dal vincolo forte di solidarietà e sorellanza. Regalare una maglia a Mara Venier con la scritta: “Str…” è stata pura strategia di marketing, brand activism che comunica valori distorti che non hanno niente a che fare con l’autenticità e l’impegno, molto di più col facile consumo.

Ritorno a Davide Maggio che non conoscevo prima della serie di stupidaggini inanellate; conosco, invece, la canzone di Samuele Bersani “L’intervista”, che così recita:

“In assoluto la mia penna è più feroce
Di quanto prima avesse fatto mai
Che schifo l’artista supremo
Io lo distruggo vedrai”.

Non credo che fare il giornalista si limiti a mettere in difficoltà chi si presta a lasciarsi intervistare, né significa seguire un filone secondo un tipo di giornalismo che nella giungla televisiva propone un volgare e feroce rumore che copre la sostanza e non sa affondare il colpo con quell’eleganza che lascia il segno, come fa Francesca Fagnani. Credo, invece, che anche il giornalismo abbia bisogno di ascolto e di un volto più umano poiché c’è un legame tra il potere dei mezzi di comunicazione e la nostra vita quotidiana che può essere influenzata dai media. Dietro gli atti eroici di alcuni per difendere la libertà di stampa, a volte ci sono gli eccessi e la libertà assume il volto dell’abuso di potere. Quando un giornalista non tiene in considerazione ciò, dovrebbe essere autorizzato a chiudere la bocca. Un giornalista dovrebbe utilizzare il “test dei tre filtri” – una storia che circola negli incontri di formazione in risorse umane, attribuita a Socrate -, quello della verità, della bontà e dell’utilità. La stampa, e i media in generale sono altoparlanti che moltiplicano, amplificano la portata di parole e azioni con il fine di renderle visibili, udibili da molti. Ciò non è criticabile. Il problema è che noi viviamo, e ancora di più dopo l’avvento di Internet, in un mondo dove i media fanno quello che vogliono, quello che torna loro utile, quello che li rende più ricchi, più visti e letti. Insomma, più influenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

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