Costume
Resiliere non serve a niente!
In principio era la resistenza…
e la resistenza aveva un connotato rivoluzionario, sanguigno, vitale. Si resisteva al nemico, si resisteva alle tentazioni, si resisteva alle ingiustizie. “Non opporre resistenza” significava un’ingiunzione di resa, di abbandono di una posizione per piegarsi, più o meno metaforicamente, ad un’altra. Resistere, resistere, resistere. Esistere, forse, alla fine.
Poi è arrivata la resilienza. Non che prima non esistesse su questa terra – la resilienza è una proprietà antica dei materiali (quella di assorbire un urto senza rompersi) e dell’animo umano (affrontare un trauma o una difficoltà senza andare in pezzi) – ma solo negli ultimi anni, con l’inizio dell’era della crisi, è diventato un termine di uso comune. Dai poster motivazionali alle voci di competenza nei curricula, essere resilienti è diventato un dictat per l’individuo contemporaneo. La resistenza no, quella sembra passata di moda, tanto per il collettivo, quanto per il singolare. In un momento storico in cui le sicurezze sono scomparse, in cui i mutamenti viaggiano alla velocità di un clic e le dinamiche sociali, politiche, economiche sono sempre più materia per chiaroveggenti che per analisti, saper affrontare i mutamenti, anche improvvisi e sconvolgenti del quotidiano può risultare utile per sopravvivere. Fin qui, dunque, nulla di strano nel successo di massa della resilenza.
Tuttavia la sua promozione da valore individuale (come la fede, ad esempio) a valore collettivo suona, in parte, come una gigantesca fregatura contemporanea. Non si tratta più infatti di adattare il proprio essere a qualcosa che “accade” indipendentemente dalla volontà – nostra o della collettività – come un terremoto, un’epidemia o un’invasione di cavallette, ma di praticare la flessibilità, spinta spesso al contorsionismo dalle regole di mercato di oggi, come stile di vita personale, trasformandola da necessità – o male necessario, direbbero alcuni – in virtù.
Un esempio può essere d’aiuto: immaginate un monaco che, per scelta di fede, decide di praticare di digiuni prolungati per distaccarsi dai bisogni materiali del corpo. Ora immaginate uno schiavo nei campi di cotone ai primi del Novecento: non ha deciso di mangiare poco per elevare la sua anima, casomai si è adattato al misero pasto fornito pur di sopravvivere. Le due condizioni sono molto diverse per quanto, arrivando al nocciolo della questione, sempre di educazione alla resilienza di stia parlando. Il monaco tuttavia ha piena consapevolezza di esercitare, attraverso la sua volontà, una scelta di privazione alla quale, giustamente, non oppone resistenza, mentre lo schiavo, sempre che non soffra di sindrome di stoccolma, ha piena consapevolezza dell’ingiusta necessità esterna che gli impone di far ricorso alla resilienza. Difatti, in molti casi, oppone resistenza e dalla resistenza nasce la ribellione, dalla ribellione il cambiamento. Questo perché lo schiavo in questione non ha interiorizzato la resilenza come valore positivo da coltivare a prescindere dalle condizioni di vita imposte. Non ha trasformato la resilienza da caratteristica propria dell’adattamento in virtù (come lealtà, onestà, sincerità) e non si è così trasformato in uno schiavo volontario.
Quello che invece sta avvenendo oggi è un cambiamento epocale: la resilienza viene promossa a valore perché rende – in estrema sintesi – tutti perfettamente adattabili a tutto. Non importa quale grado di sacrificio o compromesso sia richiesto, la resilienza mette tutto in ordine.
Se non sei resiliente non sei contemporaneo, se sei resistente sei addiriuttura anacronistico. Che si tratti dell’adattamento fisiologico e necessario a un mutamento del quotidiano o di uno stravolgimento esistenziale di cui non condividiamo né le premesse né gli esiti, la risposta è sempre la stessa: bisogna essere resilienti.
La resilienza è una cagata pazzesca!
La resilienza è diventata così, nella vulgata, un alibi grazie al quale giustificare la completa assenza di problematizzazione del presente. Perché la resilienza ha spesso lo spiacevole effetto sociale collaterale di indebolire la resistenza e, indebolita la resistenza, anche le possibili spinte al cambiamento di una situazione percepita – da pochi o tanti – come sbagliata. Se ad esempio di fronte a un’imprevista calamità naturale la resilienza è utile e necessaria perché nulla si poteva fare per evitare il problema e resta solo da ricostruire, di fronte ai fatti umani la resilienza rischia di metterci tutti a tacere, con la coscienza a posto perché “in fondo il mondo va così ed è bene avere molto spirito di adattamento”. L’interioririzzarsi della resilienza come valore e non come strumento ha, in sostenza, impoverito il nostro potenziale di cambiamento. A fronte di un’ingiustizia tendiamo a risolvere la questione con “aggiustamenti”, sicuramente utili, mai risolutivi.
Tornando all’esempio della calamità naturale: un conto è l’accettazione del fatto imprevedibile, altra cosa è la presa in carico della rabbia – costruttiva e propulsiva – che nasce ad esempio dalla consapevolezza che, per negligenze umane, qualcosa di terribile che si poteva evitare è accaduto. Nel primo caso quanto più spirito di adattamento eserciteremo tanto prima riusciremo a superare il momento di crisi, nel secondo caso invece un eccesso di adattamento può portare al cronicizzarsi della crisi, attraverso un bel lasciapassare fornito alle cause della crisi stessa. Estremizzando questo percorso, rendendo la resilienza un valore di riferimento per l’individuo e privando invece resistenza e spirito critico (ad oggi sempre più spesso indicato come “elemento divisivo”, quasi che si trattasse di un atteggiamento da invitato annoiato che decide di rovinare una festa durante la quale tutti si stanno divertendo) del loro ruolo, si arriva facilmente ad un modello di società in cui tutti – affetti dalla sindrome di Pollyanna (ve la ricordate, vero, la ragazzina affetta da infinite sventure che però, nonostante tutto, sorride alla vita?) aggravata da una sintomatologia alla Ned Flanders (il vicino buono al limite del cretino di Homer Simpson) – sorridono, non contestano, non creano problemi, sopravvivono. E magari sono anche fieri della loro capacità di prendere costantemente schiaffi e rispondere porgendo entrambe le guance in un sorriso a trentadue denti. Almeno il “porgi l’altra guancia” di matrice cristiana prevedeva il mantenimento di una precisa coscienza del peccato di chi stava di fronte che, con spirito forte animanto dalla fede, il credente perdonava con animo aperto e accogliente. Qui neanche questo è concesso: il solo privilegio è quello di potersi dichiarare “perfettamente resilienti”. A tutto beneficio di chi, grazie all’altrui resilienza, può continuare a non porsi alcun tipo di problema.
Resilienza e Resistenza
E allora converebbe svegliarsi e distinguere la resilienza buona – quella che ci fa resistere e, non a caso, continuare a esistere – e quella cattiva, fine a sé stessa, animata dalla sola intenzione di non far crescere troppo in noi lo spirito di contestazione. Di farci passare da un “Siate realisti, chiedete l’impossibile” a “Siate resilienti, adattatevi al possibile”. Perché se “le cose vanno così” è anche – in parte – colpa di un’eccessiva valorizzazione della resilienza, che ci ha reso tolleranti alle ingiustizie economiche (“C’è crisi…bisogna adattarsi a tutto”), sociali (“Aiutiamoli a casa loro”), culturali (“Non sono razzista, ma…”). Se per sopravvivere occorre esercitare un minimo di quotidiana resilienza, la società deve invece tornare ad esercitare un ruolo di resistenza. A partire dai singoli, a partire da sinistra. Costa la fatica di una costante scocciatura esistenziale, certo, ma fa tutta la differenza fra lo schiavo consapevole e quello che, con aria ebete, sorride della sua condizione ringraziando la natura per averlo reso “tanto resiliente”.
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