Costume
Ragione e risentimento. L’amore in piattaforma (parte terza)
Un racconto alimentare in tre parti. (episodi precedenti)
“E ora che si fa con tutta quella roba da mangiare?” Era a un metro da me, l’avevo sentita arrivare e mi faceva piacere vederne la figura appoggiata allo stipite, sulla soglia della cucina; il bicchiere in mano con naturalezza, la camicia di seta, a spicchi beige, caramello e caffè, morbida sulle spalle magre e a scendere verso il seno, ma lo sguardo stranamente fisso al di sopra delle labbra contratte in un sorriso elusivo. “Beh! Si aspetta”, ho detto io, le uniche cose che avrebbero potuto risentire del ritardo sono il riso e il bollitino, ma devo ancora cominciare a cuocerli”. “Davvero non hai ancora capito?”, ha detto lei. “Sinceramente no”, ho detto io. “Carlo se ne è andato, non ritorna più.” Ha risposto in un fiato. “Credo non ce la facesse oltre, non è uomo da terre di mezzo, ha troppo bisogno di salvarsi la vita per rischiare nell’indeterminatezza dei giochi”, e qui ha riso in maniera soffocata, citando la sua stessa battuta precedente, “era come se fosse sofferente, conteso da pensieri dolorosi”. “Ah!”, è stata la mia unica replica, incerto sul significato della sua ultima frase. Non volendo però essere inopportuno, a domande di chiarimento troppo personali, ho preferito l’improvvisazione. “Direi allora che ce la mangiamo noi questa cena, ti va?”, ho esclamato. In apparenza sorpresa dalla proposta, ma forse solo confusa dalle circostanze, Diletta ha risposto esitante “è un’idea che potrebbe consolarmi”, e sempre incerta, ha poi proseguito, “però se puoi, non mangiamo quello che stai già preparando; se riesci organizza una nuova cosa domestica e veloce, come se fossero venuti un’amica o un amico all’improvviso. Altrimenti, se non è possibile, beviamo qualcosa e basta”. I fatti degli ultimi venti minuti l’avevano evidentemente colpita e pur conservando l’aria seducente con cui si era mossa dall’inizio, ora suscitava in me la tenerezza di chi ha subito un inciampo doloroso, dal quale provava a rialzarsi senza renderlo troppo evidente. “Non mi spiegare niente”, le ho detto, “facciamo il gioco di vedere quanto capisco da me”. Mi ha guardato, gli occhi fissi e brillanti per le lacrime che stava trattenendo, non ha pronunciato una parola e ha annuito. Allora, mormorando un breve elenco, ho fatto il punto sul cibo che avevo in casa per poi dire, “facciamo così. Il forno è caldo, ho ancora due pezzi di baccalà e in cinque minuti sbuccio le patate. Intanto sistemo la cena mancata; sparecchio, metto via, surgelo, e tra quarantacinque minuti ci mettiamo in cucina a mangiare Baccalà e Patate al forno, la cosa che ancora oggi mia madre prepara la sera del mio arrivo, ogni volta che vado a trovarla. Nell’attesa tu, che avrai fame, finisci le mandorle mentre lo Champagne ce lo beviamo insieme”. Mi ha risposto nuovamente senza parlare, questa volta però con un accenno di sorriso, prima di sedersi alle mie spalle, sul lato corto del tavolo da cucina. Siamo restati così qualche minuto, io affaccendato e lei che senza chiedere il permesso si era accesa una sigaretta. Per spezzare il silenzio a un certo punto ho detto, “a pensarci bene, anche se non si abbinano, posso scaldare delle verdure con lo zenzero già pronte che ho in frigo. Se ci va le mangiamo, altrimenti le rimetto via”. Sono seguiti altri minuti di silenzio ed è quindi stata lei, che finita la sigaretta, ha ripreso a discorrere, “scusami questa situazione, mentirei se ti dicessi che non mi importa cosa pensi, a me interessa sempre cosa gli altri pensano di me. E poi tu conosci Lia l’amica che mi ha mandato al Paladar ed è già come doverti qualcosa, quindi voglio spiegarti”, così dicendo si è alzata, per mettersi in piedi al mio lato, un fianco appoggiato al mobile della cucina, in modo che anche io di tanto in tanto potessi guardarla in faccia, girando la testa, mentre ero affaccendato tra il lavandino e il piano di lavoro. A giudicare dalla ricchezza del racconto successivo, devo anche averla rassicurata dicendole che, “tra tutte le persone che vedo passare, voi mi avete incuriosito; quindi non fai che togliermi dall’imbarazzo di essere io a chiedere le cose, magari facendo finta di niente”. “Allora”, ha ripreso Diletta ormai un pò meno gravata dall’emozione, “comincerei col dirti che mi sono iscritta a Tinder da qualche mese, sei mesi, a dire la verità, non so se sai come funziona; per me è stato una specie di promessa poco mantenuta, certo non è da censurare, ma nemmeno da considerare particolarmente efficace. E’ difficile entrare realmente in contatto con altre persone, perché è necessario che l’algoritmo proponga una combinazione e che questa sia reciprocamente accettata; senza non si può inviare nemmeno un messaggio. Quando una possibilità esiste, cosa che nei rapporti eterosessuali è più frequente per le donne che per gli uomini, si assiste a impacci e disinvolture d’ogni genere. C’è quello che dice da subito che lui vuole solo “ficcare”, ma anche chi ti fa lezioni di poesia. Quello che, appunto, dice di volere solo allargare la cerchia delle amicizie e quello che dopo i primi messaggi, sparisce e dopo un mese scrive per raccontare dei suoi tiramenti, nudo nella doccia a pensare a me”; e qui Diletta sentendomi ridacchiare, ha riso anche lei e ha aggiunto, “davvero credimi, mi è successo, con tanto di foto dei famosi tiramenti sotto la doccia; una cosa irreale nel modo, non per il fatto in quanto tale”. La ascoltavo e interloquivo attraverso brevi commenti, non volevo deviasse dalla sua ricostruzione per rispondere alle mie curiosità. Mi ha raccontato allora che in tutto quel tempo era uscita con due persone; serate normali come si possono trascorrere con l’amico di amici incontrato a una festa di compleanno; occasioni standard di galanteria urbana, prive di conseguenze. Carlo era il terzo incontro; trovava fosse un bell’uomo, uno sguardo trasparente e due occhi molto mobili, che però se parlava a te, era te che guardavano. Si erano scambiati messaggi per due settimane e avventurati in un paio di divertenti video chiamate. Diletta era incuriosita dalla sua maniera di parlarle come se si conoscessero da molto; senza alcuna intenzione di farsi piacere, le esponeva manie toccate da una divertente tendenza all’ossessione, riferita a questioni per lui di assoluto principio, come la temperatura sbagliata delle tazzine da caffè nei ristoranti, i coltelli da scaldare sulla fiamma per spalmare il burro, o le questioni esposte in lettere di protesta recitate, che formulava guidando, ma non aveva mai il tempo di scrivere ai direttori dei giornali. Insomma un uomo interessante rispetto al quale non aveva mai avvertito, nonostante l’estraneità, l’ostacolo di un distacco emotivo o quello di uno scollegamento dalla realtà per come lei la intendeva. Certo tutto ciò non era niente di più che la premessa per un primo incontro, “e da quello all’essere arrivati qui questa sera, il passo è stato semplice, come puoi immaginare anche tu”.
Intanto il mangiare era finalmente pronto, ho appoggiato la teglia direttamente sul tavolo e dopo essermi seduto ho servito entrambi. Lei seguiva con gli occhi le mie mani spostare le cose nel poco spazio e una volta di fronte al suo piatto, ha avvicinato la faccia per sentire il profumo e il calore che salivano dal Baccalà e dalle patate appena sfornate. Un gesto spontaneo per gratificarmi, ma che poteva anche esprimere qualcosa come senso di casa, conforto, memoria indefinita di qualcosa. Poi ha ripreso a parlare, tenendo la forchetta sollevata con la destra, come per scandire il ritmo di quanto stava per dire, “perché vedi, questa sera mi sono fatta un po’ male non per il suo essere andato via così, né perché non possa fare a meno di lui, Carlo è uno sconosciuto e io sono grande; né mi sono sentita ferita nell’orgoglio, sentimento che non riconosco particolarmente mio”, poi per darsi il tempo di trovare le parole adatte, ha distolto lo sguardo e con le dita della mano sinistra ha preso una patata dalla teglia e l’ha portata alla bocca, “il punto è che quando trovo un pervertito”, ha quindi ripreso, “come quelli che mandano le foto del loro cazzo a una sconosciuta, lo riconosco e riconosco anche i casi in cui ho di fronte un classico stronzo, gli anaffettivi, i noiosi. Quello che io non riesco a prevedere, né a quanto pare a sostenere, è quando incontro una persona che da qualche parte e per qualche ragione si è spezzata, che si espone comunque e continua a vivere dissimulando, ma poi, presto o tardi, me la ritrovo sanguinante tra le mani”. “E’ il loro dolore che ti tocca?”, ho chiesto io. “E’ il loro dolore, è la mia impotenza, è la paura di essere io l’occasione per le loro verità. È vederli improvvisamente incapaci di tenere in conto gli altri e me in particolare. E’ la diffidenza con la quale devo vivere. È chiedermi quanto poco io debba poter volere, perché non sia già troppo. E’ la fatica. E’ che sono stanca. E potrei continuare”. “La sensibilità non favorisce le soluzioni semplici in amore”, avevo pensato ascoltandola in tutto quel tempo, e Diletta con il suo racconto era all’incrocio tra le ragioni della responsabilità, il desiderio di amare spontaneamente e le verità di un’epoca della vita, in cui le possibilità rimaste possono solo essere consumate, senza più rigenerarsi.
Intanto avevamo finito di cenare, anche le verdure con lo zenzero erano servite a scaldare l’ambiente, seguite al baccalà con le patate e mangiate direttamente da un unico piatto tra noi; più per dare a quella sera il tempo di scorrere ancora insieme alle parole, che per una improbabile fame. Era quasi l’una quando Diletta stanca, ma ormai tornata quella che avevo conosciuto al suo arrivo, ore prima, ha deciso che la serata era finita, “penso che adesso dovrei andare, Gerineldo”, poi per scherzare con la complicità che si era creata tra noi ha aggiunto, “che nome sarà mai Gerineldo? Credo che tua madre ti faccia il baccalà con le patate ogni volta, solo per espiare la colpa di avertelo dato questo nome”. Immagino di avere solo arcuato la bocca a mimare un sorriso, incerto su quanto stavo per dire, “puoi andare, se hai deciso così, ma io non ti mando via. Sarebbe bello se volessi restare”. Forse solo per il timore tutto mio di avere osato troppo, ho visto balenare lo stupore nel suo sguardo. Poi ha sorriso e come anticipando una mia obiezione, che io però non avrei mai mosso, ha detto, “davvero grazie di tutto e anche di questo, è che in una sera di algoritmi e piattaforme, tu sei entrato dalla porta principale, quella del caso, e se ci sarà dato, vorrei seguissimo la via di sempre, quella romantica”. Poi si è alzata e ha preso dalla borsa un biglietto da cinquanta euro e intenta a cercare una matita, senza guardarmi, ha mormorato, “questi sono per la prima cena, la seconda, quella di riparazione, la offri tu”. Quindi ha scritto sulla banconota “buonanotte chéri” e cercando con lo sguardo i miei occhi, l’ha appoggiata sul frigorifero, prima di indossare il cappotto e uscire.
Baccalà al forno con le patate
E’ mangiare con la pancia in purezza: non conosco nessuno che non sia precipitato nel vortice di gusto in cui riesce a trascinare. Ma è anche cucina in purezza, cioè non somma di ingredienti, bensì combinazione di cose, che per qualche ragione si trasformano in qualcosa di altro. Le cipolle non sono più cipolle, il baccalà non è più baccalà e anche le patate smettono di esserlo: insieme diventano baccalà al forno con le patate.
Ingredienti. Le quantità dipendono dalla dimensione della teglia, poiché ogni dato ammontare di baccalà, può essere cotto con mezzo chilo, un chilo o anche più patate. Io mi oriento disponendo tutto in maniera “azzeccata”, cioè fitta, e indicativamente utilizzo una grossa cipolla bianca o di Tropea e circa 500/700 grammi di patate per ogni due pezzi di baccalà del peso complessivo di circa 4/500 grammi. Poi olio, pepe, timo e sale.
Procedimento. Un filo di olio a coprire con certezza l’intero fondo del recipiente che andrà in forno. Quindi uno strato di quasi tutta la cipolla disseminata sul fondo, sopra a questa il baccalà, avendo cura di distanziare i pezzi e poi lo spazio restante lo riempio il più possibile con le patate. Il distanziamento è utile poiché il sapore del pesce contamina patate e cipolla e ovviamente così l’irradiamento così funziona meglio. Le patate devono essere tagliate rigorosamente a spicchi: in quattro per quelle di dimensione media, altrimenti in otto. Non ricorro mai a quelle troppo piccole. Una volta ridotte in questa forma, conviene riunirle in una ciotola, aggiungere il sale, il timo e un goccio di olio e mescolare accuratamente. Meglio con le mani, prima di disporle sulla teglia. A completare qualche altra rondella di cipolla sopra e tra le patate. LA cipolla cotta in forno sarà digeribilissima e poco avvertita, perché si liquefà quasi completamente. Per ultimo, passo un filo di olio anche sul pesce e introduco, nel forno non ventilato, in precedenza portato alla temperatura di 200 gradi. Cotte le patate, sarà cotto anche il baccalà: ci vorranno circa 45 minuti. Qualora rilasciasse troppa acqua e non fosse evaporata, è possibile passare al forno ventilato negli ultimi dieci minuti. Ma siamo davvero ai sofismi.
Verdure allo zenzero
Tanto la ricetta precedente soddisfa appieno e con immediatezza la voglia di Sud, quanto questa riesce a quietare quella di India che ogni tanto mi prende e che fuori dal subcontinente, ho soddisfatto davvero solo in un posto ormai dimenticato di Londra e all’Himalayan Restaurant di Chicago. Inoltre si conservano in frigo per qualche giorno e mi aiutano a consumare le carote e il sedano che a volte si accumulano.
Ingredienti. 500g di carote, 200g di sedano, un pezzo di zenzero fresco, 2 peperoncini piccanti meglio se quelli verdi, freschi. Olio di semi di girasole, un pizzico di cumino, un cucchiaio da te di plovere di coriandolo e uno di cumino.
Procedimento. Taglio lo zenzero in strisce e quindi a cubetti. Riduco le carote in bastoncini lunghi circa due centimetri, dopo averle tagliate in quattro per il lungo. Altrettanto faccio con il sedano che però basta sezionare in pezzi. Quindi faccio soffriggere per un minuto a fuoco medio lo zenzero e il cumino. Poi unisco il peperoncino e le due verdure prima mescolate con la curcuma il coriandolo e il sale. Aggiungo il sale e faccio cuocere per un tempo massimo di dieci minuti. Le verdure devono essere croccanti e se possibile mangiate tiepide dopo averle fatte riposare almeno un’ora. Ovviamente funziona altrettanto bene impiegando le sole carote, ma non utilizzando solo il sedano. In genere si mangiano col basmati, oppure…. ma queste sarebbero altre cene, meno improvvisate.
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