Costume
Ragione e risentimento. L’amore in piattaforma (parte seconda)
Un racconto alimentare in tre parti. Segue dalla precedente accessibile qui
Sono arrivati quasi in orario e quasi insieme; non volendo aggiungere la mia estraneità a quella che con immediata evidenza già li univa, li ho accolti e tra sorridenti convenevoli, ho subito indicato loro la sala dove avrebbero potuto accomodarsi, al tavolo già apparecchiato oppure, meglio, sul divano accanto. Promettendo l’aperitivo li ho accompagnati e fatto seguire dopo qualche minuto, le piccole olive di Gaeta e le mandorle brune, profumate per la tostatura; da bere ho versato bollicine francesi senza contraddire la vocazione popolare del Paladar, perché chi sa dove prenderlo, paga lo Champagne in Francia, quanto in Italia può costare la birra artigianale. Io di questi appoggi avevo sempre e solo sentito vagheggiare, fino a che un amico instancabile e generoso, circa un anno fa, mi ha aperto alla movimentata comunità di coloro che beneficiano delle sue capacità di arrivare ovunque per tutti. Diletta dopo l’unico contatto tra noi, non mi era sembrata la persona che potesse lamentare il peso di una bottiglia sul conto, per cui quella domenica sera, dopo aver riempito le due coppe da Martini, l’ho lasciata a loro disposizione, iniziando da quel momento a far scorrere il tempo della sospensione iniziale, che a mio sentire avrebbe potuto essere di circa tre quarti d’ora, durante i quali, come lei aveva chiesto, avrebbero potuto fare cerimonia senza essere interrotti.
Inevitabilmente dalla cucina ascoltavo la loro conversazione, e sentirli parlare rimarcava l’asimmetria che mi era da subito stata chiara. Lui si era presentato come Carlo, con la brusca cortesia di chi per routine è costretto a salutare molto gente; lo aveva fatto in maniera sonora, ancora sulla porta, tra battute di circostanza e qualche imbarazzo, forse per l’insolita situazione di trovarsi con quella che chiaramente era una sconosciuta, in casa di uno che sconosciuto lo era per entrambi. Rimasti in sala, lo sentivo parlare con frequenza, ma per episodi non collegati, alla ricerca di un argomento familiare a partire dal quale sintonizzarsi. Lei invece era entrata sorridendo, mi aveva ringraziato e senza ancora togliersi il cappotto lionato, aveva commentato con naturalezza la nostra mail e citato la comune conoscenza con Lia, l’amica alla quale doveva le informazioni sul Paladar. Chiacchiere di circostanza anche quelle, ma di una circostanza che tesse invece che separare, che dialoga e non asserisce. Ora, nei primi minuti del loro aperitivo, la ascoltavo adattarsi alla conversazione di Carlo, annuire alle sue questioni con frasi brevi, rispondere a lui con la sicurezza di chi non si era lanciata nel vuoto quella sera, perché anche in una situazione inedita, aveva deciso tutto ciò che era stato importante fino a quel momento: il luogo dell’incontro, il menù e forse anche altre cose a me ignote; soprattutto Diletta pareva non avesse bisogno di continue precisazioni per proteggersi, chiarire, correggere perché, per come la vedevo io, non sembrava temere giudizi e presunzioni. Era a suo agio con quanto si stava svolgendo, e non si occupava di quanto di lì in avanti avrebbe potuto succedere. E non sto dicendo che avesse la tranquillità dell’indifferente, non potevo saperlo, né una illimitata disponibilità; probabilmente in gioco c’era molto, ma era roba sua e sembrava potersela giocare con generosità, senza imporre, né togliere niente a nessuno. Queste però erano tutte mie ricostruzioni, avrei ammesso a me stesso in seguito, quando ripensandoci verso le due di notte, rimasto ormai solo in casa, riordinavo la cucina e provavo a ricomporre i frammenti di quella serata, per dare loro un senso e a me una speranza. Tra cose non sentite e altre non ascoltate, nei pensieri era rimasto impigliato troppo poco degli scambi tra i due, episodi per giunta organizzati in una successione casuale di ricordi. Lei era tifosa dell’Inter, ma non la considerava una questione troppo seria; lui invece detestava il calcio e prendeva questa avversità come un principio quasi morale. Il Natale, di lì a una settimana, Diletta lo avrebbe trascorso con la sorella e i suoi molti talenti, evocati con ironia ma senza avversione, il suo bel marito inconcludente e le due amate nipoti. Carlo non capiva perché donne di valore a volte si perdessero con uomini che erano meno di loro. E dove starebbe il valore da lui attribuito all’una e il minor merito presunto nell’altro? Aveva replicato lei, che ridendo ammetteva di non comprendere la distinzione, mentre capiva benissimo che in alcuni uomini ci si potesse perdere. E comunque non aveva ancora deciso dove trascorrere le feste, chiariva lui cambiando ancora discorso, giacché si era lasciato con quella sua compagna dopo dieci anni e per la prima volta sarebbe stato nuovamente da solo. Forse a casa, forse a sciare, forse qualcuno lo avrebbe invitato e comunque il Natale non gli era mai piaciuto. Nello scorrere di questi dialoghi li sentivo muoversi per la stanza, anche se credo che fosse principalmente lui a spostarsi, a giudicare dalla pesantezza dei pochi passi attutiti dal tappeto e dal mutare della sua voce che giungeva in cucina, proprio come quando una stessa persona parla da posizioni diverse. E’ quindi arrivata la volta dei commenti sui libri e sulla libreria che erano in sala; di quelli sulla zona di Milano in cui si trovavano quella sera e inevitabilmente delle domande sul Paladar, citato da lui sommessamente, come per non farsi sentire, per chiedere cosa fosse di preciso, mentre lei gli ha risposto in tono normale, spiegando che si trattava di un ristorante domestico, il cui nome e riferimenti circolano solo col passaparola e dove si paga rimborsando le spese; poi chi vuole e può farlo, lascia qualcosa. E insomma come era pieno di possibilità il mondo dopo il Covid, spesso queste cose sono il frutto della creatività di gente che aveva perso un lavoro, ma anche delle possibilità di anonimato che la città offre, diceva Carlo ringraziandola per essersene occupata, mentre si complimentava per la scelta inconsueta. Lei non ci aveva mai pensato, ma forse era vero che una cosa simile non sarebbe possibile a Viterbo o Varese; “andrebbe chiesto a Gerineldo”, disse. E poi ancora altri accenni, commenti, parole perse nella confusione della mia memoria riguardo a fatti sostanzialmente irrilevanti, sparsi nei cinquanta minuti che nel complesso trascorsero insieme. Tra questi qualche eccezione, come il distinto ricordo che ho di Diletta che attraversava il corridoio per affacciarsi in cucina e dirmi a voce alta, “che le mandorle salate potessero essere così convincenti, se fatte in casa, non lo avrei pensato mai. Ci ho provato a farle, ma è il segreto per far stare attaccato il sale che mi manca; con questa premessa chissà la cena come ci stupirà!”. E poi il suo tornare da lui senza aspettare la risposta già pronta, con la quale le avrei rivelato che le mandorle vanno passate nell’albume d’uovo, prima di essere salate e infornate. E comunque io avevo preso quel suo affaccio come un segnale per indicarmi che era il momento di cenare; per questo ho guardato l’orologio, osservando che di minuti a quel punto ne erano trascorsi solo trenta dal loro arrivo, e che ne avrei avuto bisogno più o meno altri quindici per essere pronto a servire.
La domanda che ha poi rivolto a Carlo, una volta di nuovo in sala, ha però segnato un inaspettato cambio di registro che toccava tutte le mie deduzioni e presunzioni, “senti, ma come vedi questa nostra cosa?”, gli ha chiesto; “Insomma molti dicono di sé, sui propri profili, che si iscrivono alle piattaforme di incontri per cercare nuovi amici e “poi si vedrà”, ma io e te lo sappiamo benissimo che è il “poi si vedrà” la parte fondamentale”, quindi ha esitato un attimo, come a cercare ulteriori parole che dessero un senso compiuto a quell’esordio insolitamente diretto, “se non vuoi non devi rispondermi dicendo cose che ancora non sai, non me lo aspetto; a me però piacerebbe che ci muovessimo con questa consapevolezza di giocare, ma di praticare un gioco per adulti; innocuo, ma serio; senza direzione ma anche senza ritorno”. Ero colpito dall’assenza in lei del timore di essere sentita da me che rumoreggiavo a non più di cinque metri di distanza; ma soprattutto ho sentito nello stomaco l’effetto che stava avendo su di me l’esattezza con cui si era espressa; un pensiero cristallino e seducente, senza l’aggiunta di banalità come i riferimenti ipocriti alla mancanza di aspettative, all’assenza di obblighi e impegni, al vediamoci per un po’ e lasciamo fare al tempo e così via. E prima che l’aria si posasse sul silenzio che sarebbe seguito, come per ammorbidire la tensione che immaginavo essersi creata tra loro, ha poi aggiunto, “fammi solo dire che il “poi si vedrà” è una cosa diversa per ciascuno, e io, sinceramente, non ne ho uno a cui miro o preferisco; so però per certo che non sto cercando amici. Tutto qua; forse è stato un pensiero inutile, ma mi andava di dirtelo.” A quel punto, la seconda cosa che ricordo con precisione di quel primo frammento di serata, fu l’assenza apparente di Carlo, che per la prima volta da che erano arrivati non sentivo più affatto; non il tonfo dei suoi passi, non la sua voce, non il suo manifestarsi in maniera sempre evidente e sonora. A essere udita per un po’ era restata solo l’acqua che scorreva nella pentola destinata al bollitino, poi gli scatti nitidi dell’accendigas e il rumore del metallo contro metallo delle cose da me appoggiate e spostate con una certa enfasi, per dissimulare il mio interesse alla loro conversazione.
Poi lui aveva infine riconquistato presenza, “no, no. Certo, hai ragione, anche io penso che mi sono iscritto, insomma, per trovare qualcuno, anche se non so bene chi e cosa. Dopo dieci anni e una delusione così forte, non vorrei sbagliarmi, ecco; però certo, sono cose complicate, ma se vuoi ti racconto”. E poi senza attendere un assenso e con l’improprietà dei mezzi di un uomo inadatto a superare le convenzioni, ha cominciato a dire le ragioni del suo cuore smarrito, pensando forse di conquistare i meriti riconosciuti alle persone sincere, ma inconsapevole del fatto che la sincerità è sì un pregio, ma la sincerità inutile, sprecata in verità scontate, è solo il segno insuperabile di tutta la noia che potrà seguire. Per cui prese a spiegare come l’idea di famiglia o di coppia che lui aveva, erano l’esito di quanto visse fino ai dodici anni, quando suo padre, un inglese stabilitosi per amore di sua madre nel nord dell’Italia, era morto un sabato pomeriggio in giardino. Un aneurisma che aveva lasciato la mamma senza grandi affanni economici, ma incapace sia di restare sola, sia di trovare un uomo che si adattasse a quella situazione insolita per i tempi; vedova, con due figli ma in cerca d’amore per sé. E allora lui, per rimediare alle pene degli anni incerti che erano seguiti, il suo turno di fare la cosa giusta lo aveva aspettato a lungo, fino ai trentacinque anni, ossia undici anni prima, quando incontrò Sabina, la compagna che aveva lasciato da cinque mesi, e che all’epoca aveva una bambina di due anni. E gli era sembrato che sarebbe bastato seguire la propria storia in negativo, trasformando cioè il grigio chiaro in grigio scuro e il bianco in nero e viceversa, per far funzionare tutto. Così però non fu da subito, ma lui si adattò al fatto che quanto bastava per una vita normale il secondo o il quinto anno, non bastasse, per il terzo o il sesto. Rinunciava, si faceva da parte, aggiustava situazioni, stemperava senza farle maturare, quelle amarezze che avevano rese dense certe sere a tavola nella sua famiglia infelice; in fondo, continuava, “un ordine naturale delle cose doveva esistere e noi secondo me lo assecondavamo, anche se Sabina a volte sembrava scontenta”. Non vedeva, Carlo, una maniera di avere un’altra vita; lavorare bisognava e tornare a casa anche, e quando avevi fatto queste cose restava poco. Per l’Ente Fiera per cui lavorava, percorreva trecentomila chilometri all’anno; una routine bella e molto ampia che comprendeva luoghi, gente, varietà di vite; ma sempre una ruota intorno al centro immutabile che erano stati lui, Sabina e la bambina, fino al giorno in cui sul computer inavvertitamente rimasto collegato al whatsapp di lei, lesse quella serie di messaggi. Niente di scabroso, ma la sua donna inquieta aveva chiaramente una relazione con uno sconosciuto e quando in un paio di battute erano arrivati a parlare di Carlo, entrambi ne dicevano bene, ma come di un brav’uomo, una persona sfortunata da non ferire. E questo, insieme all’accorgersi che la vita di Sabina gli era estranea al punto che nemmeno conosceva il suo amante, lo aveva toccato; per cui quel giorno stesso aveva lasciato la loro casa. Avrebbe scoperto poi, continuava a raccontare, che una sofferenza ancora più radicale veniva dal constatare che lei, mai una volta da allora, aveva argomentato contro le proprie colpe e in favore di un suo ritorno. Sabina si era scusata senza chiedere perdono, semplicemente lo comprendeva per essersene andato, mentre lui dopo cinque mesi non era più certo se il torto lo avesse subito, oppure, trascorso un certo tempo, lo stesse colpevolmente infliggendo, unicamente per orgoglio.
Diletta che fino a quel momento aveva ascoltato senza interromperlo, sentendosi toccata, aveva ritenuto di farlo allora, “grazie per questa storia che mi dice molto di te”, ha detto, “non era davvero necessario, per cui ti sono doppiamente grata e ci voglio vedere un senso nel tuo avermi raccontato subito cose così personali”, poi seguendo lo schema di determinata dolcezza già sperimentato prima, gli ha chiesto, “fammi però capire se ti senti in colpa o nel posto sbagliato per il fatto di essere qui con me, perché io, a dire la verità, in questo momento, magari per eccesso di sensibilità, mi sento più che mai estranea, a interpretare un ruolo anche un po’ improprio”. La semplicità lucida e forte che portava Carlo a essere risolutivo, non era priva di un sentire intelligente, per cui aveva capito il disagio che contenevano queste frasi articolate con calma. “No, perché dovrei sentirmi in colpa? Non è questo; io non penso di fare cose che non vadano fatte, né tantomeno mi spiace essere con te. È che da qualche tempo, quando i fatti e le parole danno forma alle situazioni, le rendono un po’ più reali, mi sembra strano che in mezzo ci possa essere io, e …” “Ho capito”, ha replicato Diletta interrompendolo, “magari averti detto quella cosa degli adulti ti ha disorientato, e se così doveva essere, è bene che così sia stato, benché io non avessi questo intento. Il gioco dei grandi però per me è anche questo, usare le parole e i fatti per abitare la realtà per come la sento; così poi c’è una cosa vera con la quale fare i conti, un primo passo. Non necessariamente la verità assoluta, certo, quasi sempre frammenti nei quali intrigarmi, sapendo però che posso aspettare, far sfumare o decidere io cosa può andare bene”. Carlo si era alzato nuovamente, sentivo il suo incedere lento lungo il perimetro della sala, dove la fine del tappeto permetteva ai passi di echeggiare sulla palladiana di marmo. Poi gli ho sentito dire, “mi dai solo cinque minuti? Credo di avere lasciato il telefono in auto; non che mi serva, ma non vorrei che vedendolo esposto a qualcuno venissero cattive idee. Poi riprendiamo il discorso”. Quindi ha attraversato il corridoio e passandomi davanti mi ha rivolto poche frasi disattente, per dire che sarebbe tornato quasi subito.
Mandorle tostate al sale
Ingredienti. 250g di mandorle pelate, l’albume di 1 uovo, sale grosso macinato, 1 cucchiaino di paprika affumicata.
Procedimento. Mescolo in una ciotola e con una frusta l’albume, la paprika e due cucchiaini di sale. Quindi unisco le mandorle e con le mani, indossando guanti per alimenti, mi assicuro che l’albume ricopra tutte le mandorle. Quindi le estraggo singolarmente eliminando l’albume in eccesso e singolarmente le dispongo su una teglia ricoperta da un foglio di carta da forno. E’ importante non eccedere con l’albume, così come è essenziale tenerle separate singolarmente, altrimenti nel forno risulterebbero ricoperte da una spessa glassa e attaccate tra loro. Prima di infornare a 180 gradi, passo sopra ancora un po’ di sale fino. Dopo circa 8 minuti in forno, si saranno asciugate e non corrono più il rischio di attaccarsi tra loro. Con una spatola di silicone vanno staccate dal fondo di carta mescolate e girate. Saranno pronte dopo altri 5 minuti, benché il metodo migliore per giudicarle sia quello di assaggiare e decidere se il livello di tostatura è quello preferito. Una volta pronte vanno rimosse dalla teglia immediatamente, altrimenti andranno avanti a cuocere sul metallo caldo e il punto di appoggio si brucerà.
(Segue giovedì 26 gennaio)
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