Costume

Rage room. La rabbia può essere un business?

25 Febbraio 2018

Una stanza insonorizzata, casco, visiera e protezioni, una mazza a scelta con cui colpire con forza oggetti appositamente sistemati nel locale per un tempo che varia dai 5 minuti alla mezz’ora. Le rage room (o camere dalla rabbia) sono nate negli Stati Uniti e, a partire dal 2010, si sono diffuse in diversi paesi del mondo, Italia compresa. Lo scopo? Fornire ai clienti uno spazio per poter sfogare liberamente e in sicurezza la rabbia repressa creata da stress e frustrazioni quotidiane. Il prezzo base prevede un allestimento “minimale”, ma – per chi ha voglia di concedersi “qualcosa in più da distruggere” – è possibile scegliere oggetti specifici o “temi” d’arredo del locale. C’è chi vuole prendere a mazzate un pc posizionato su una scrivania da ufficio, chi preferisce concentrarsi su oggetti che esplodono letteralmente in mille pezzi (bottiglie, vasi, piatti e porcellane), chi sceglie invece di ritrovarsi immerso in piume e imbottiture provenienti da divani e poltrone sventrate. Alcune strutture offrono anche la possibilità di un accompagnamento musicale – con scelta di una colonna sonora modellata sui gusti del cliente – o di pacchetti di gruppo, per sfogarsi in compagnia.

L’opinione pubblica, anche in Italia, ha salutato positivamente questo fenomeno sottolineando come sfogare in questo modo le tensioni che si accumulano sul lavoro, in famiglia, nelle relazioni di ogni giorno, diminuisca la possibilità che si generino altre tensioni e da queste conflitti. Il lavoratore stressato dal capo non sfogherà quindi in una lite con il vicino di casa il suo nervosismo, così come un capo ansioso non “maltratterà” i malcapitati collaboratori.

Analizzando però il fenomeno in modo più approfondito è impossibile non porsi alcune domande.

A che punto siamo arrivati, nella generazione di stress “da contesto”, se ci vediamo costretti a creare un apposita struttura di sfogo? E di che tipo di stress stiamo parlando?

Se pensiamo infatti ai metodi tradizionali di “scaricamento dello stress” sicuramente lo sport ha da sempre rivestito un ruolo fondamentale. “Sei nervoso? Vai a farti una corsetta in cortile” ci dicevano a scuola. Prendere a pugni un sacco in palestra ha rappresentato per molti un momento di liberà, così come la corsa, il nuoto e in generale gli sport di resistenza. In seconda battuta poi comparivano le discipline meditative, come i vari metodi yoga, che – sfogato lo stress immediato – insegnavano a gestirlo e contenerlo facendo i conti anche con le emozioni negative. Evidentemente questo non basta. La rabbia (i termini in questo caso sono molto importanti) che si sfoga nelle rage room non è semplice nervoso, né accumulo di energia “compressa” dato da attività a volte troppo sedentarie o frustranti per il nostro corpo, ma vera e propria ira. Se già le domande da farsi rispetto a una società che costringeva a ritmi di vita non compatibili con un sano rapporto corpo/mente, in una continua compressione della fisicità in favore del rendimento professionale, erano molte, questo nuovo tipo di rabbia ne dovrebbe far sorgere ulteriori. Perché abbiamo bisogno di distruggere per placarci? La stanchezza fisica non basta più e lo sport – con la sua capacità di “tradurre in positiva” anche l’energia fisica violenta (boxe, lotta, muay thai…) trasformandola in qualcosa di costruttivo – nemmeno. Nelle rage room diamo spazio alla nostra energia negativa, il cui unico scopo è distruttivo. Sto meglio perché faccio a pezzi qualcosa. La differenza è sostanziale e poco conta che siano situazioni “sotto controllo”. Quello che dovrebbe interessarci è la motivazione che porta al nascere di questo sentimento: un mix di frustrazione, nervoso, insoddisfazione, desiderio di vendetta.

Tutto molto “naturale” se si pensa che uno dei primi istinti di un bambino frustrato, ad esempio, dall’impossibilità di utilizzare un giocattolo in mano all’amico, è quello di afferarlo violentemente e – piuttsoto che cederlo – romperlo. Per la stessa ragione siamo portati a prendere a pugni un macchinario che non funziona (il pc, la macchinetta che si è mangiata le nostre monete), ma si tratta di gesti d’istinto che, nella maggior parte dei casi, superata l’infanzia, freniamo. Frenare questi gesti implica la capacità di trasformare la rabbia in qualcosa di costruttivo, che sia una spiegazione sul nostro stato d’animo per essere capiti e accolti o una rimostranza verbale per qualcosa che non funziona. Nella stanza della rabbia questo elemento salta. Quello che chiediamo – razionalmente e fuori dal contesto momentaneo della “botta di nervoso” – è di poterci lasciare andare a una distruzione immotivata.

E vengo alla seconda domanda: come mai dovemmo voler distruggere, per il puro gusto di farlo, oggetti nati dal lavoro di qualcun altro? Cose con una storia, una loro funzione e – in un’epoca in cui, giustamente, si stanno portando avanti sacrosante battaglie sugli sprechi – un potenziale utilizzo/riutilizzo? Il computer distrutto nella stanza della rabbia, il divano sventrato, il soprammobile, il set di bicchieri (per quanto spaiati), sono oggetti con una funzione che, con tutta evidenza, non è quella di essere presi a mazzate. Non sono nemmeno quegli oggetti che, eventualmente, possono aver scatenato la nostra rabbia (quelli li avremmo già “lanciati” sul momento).

Quindi perché? Cosa spinge una persona stressata a rinunciare ad una corsa, a una sessione di kickboxing o a una seduta di yoga in favore di mezz’ora di distruzione generale?

Probabilmente occorrerebbe indagare sul tipo di stress che genera questa esigenza, sulle pressioni a cui quotidianamente la nostra testa è sottoposta, sul grado di frustrazione generato dal vivere quotidiano, perché se la rage room può rivelarsi un buon strumento per gestire la rabbia, il fatto che tutta questa rabbia venga quotidianamente generata e chieda quindi di essere gestita dovrebbe far suonare qualche campanello d’allarme. Per quanto antieconomico possa essere.

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