Costume
QUELLO CHE SI CAPISCE DELL’ITALIA ANDANDO DA MILANO A ROMA IN BICICLETTA – 2
“W la pensione!” (sentita in piazza a Fornovo Taro da un gruppo di signore che pranzava in piazza).
La cosa bella dei viaggi a piedi o in bicicletta di più giorni è sentire il corpo che si setta su una fatica continuata. Si può arrivare mezzi morti, come ci è successo nella tappa Massa – San Giminiano, dormire come un sasso e il mattino successivo essere in grado di ripartire, dimenticando tutti i “chi me lo ha fatto fare pronunciati lungo il percorso”, che entrati in Toscana si fa bellissimo e assai più duro, per il caldo e i saliscendi. Ma abbiamo voluto la bicicletta…
La campagna esiste. Lasciata la costa Tirrenica verso Lucca e l’interno della Toscana si entra in una dimensione compiutamente rurale: i borghi sopra e la campagna sotto, i capannoni dove la terra valeva meno, le vigne dove continua a valere molto. L’agricoltura sembra essere, nel 2023, sparita da ogni discorso sull’economia e sul lavoro. Se ne esaltano le eccellenze (che qualcuno dovrà pur produrre), si contano i danni, calcolati da Coldiretti sempre in miliardi, degli eventi climatici estremi, ma il primario sembra scomparso dall’orizzonte delle politiche di sviluppo e delle prospettive di lavoro. Male, perché quei paesi paesi che ci piacciono tanto sono così al 70% per le radici agricole (e al 25% del restante per le radici cattoliche) e solo una solidissima base di agricoltura, sostenibile, digitale, eccetera, può pensare di contrastarne lo svuotamento e la museificazione. Che è quello che prova a fare la cooperativa Filo e Fibra a San Casciano dei Bagni, dove arriviamo da San Giminiano sfidando una nuvola terribilissima che ci regala molteplici acquazzoni. Le signore della cooperativa, presieduta da una simpaticissima musicista fiorentina, Gloria Lucchesi, ormai con solide radici locali, hanno organizzato una produzione tessile che da lavoro a numerose donne e impegna la creatività di designer e artigiani. Il loro capolavoro è la cassetta di cottura, una scatola di lana trapuntata che sfrutta il potere di coibentazione della lana (che recuperano dai pastori con non pochi problemi, perché nell’era del benessere oggi è rifiuto speciale) per cuocere i cibi. Li mettete in pentola, li portate a bollore sul fuoco, poi spegnete e mettete nella cassetta, dove tutto finirà di cuocere per ore senza gas. L’ho provata e me ne sono innamorato: è un oggetto anche bello (il lavoro delle designer), iper sostenibile e che innova una tradizione rurale molto antica. Con lo stesso principio, ad esempio, portavano con i muli il rancio caldo nelle trincee della I Guerra Mondiale, o più banalmente tenevano l’acqua in fresco i contadini. Ho adorato la cassetta di cottura non solo perché è un oggetto bello, sostenibile e utile, ma anche perché rappresenta proprio quell’attenzione a fare ripartire il motore grippato delle economia rurali dal lavoro. Senza lavoro, innovando le economie tradizionali o inventandosi qualcosa di nuovo (ma niente assistenzialismo, né tantomeno letteratura, deve essere solido, concreto, pagare gli stipendi) le aree marginali resteranno sempre più tali. Luoghi in cui ci si riposa o si muore.
Gli stranieri sono già parte integrante del nostro sistema produttivo. Da Salsomaggiore a Forte dei Marmi a San Casciano dei Bagni, ogni esercizio commerciale con più di due dipendenti comprendeva almeno uno straniero, di preferenza est europeo o sudamericano. Non è il terzo segreto di Fatima, semplicemente gli immigrati vanno anche nei posti meno attrattivi, magari bellissimi ma dove succede poco, piaccia o meno a coloro i quali vorrebbero tutti locali in ogni luogo. È assai più probabile che un caseificio, un agriturismo o un bar di paese si regga sulla manodopera immigrata che sui locali, che spesso non ci sono più. Crescono impetuosamente anche le famiglie miste, con mariti locali e mogli provenienti da altri paesi e più disponibili a vivere in località estremamente tranquille e isolate. È un peccato che nella discussione sulle aree marginali questo elemento non trovi sufficiente attenzione, mentre permetterebbe di focalizzare meglio sia i contesti che gli interventi.
Fuori dal Frecciarossa muoversi in Italia è troppo complicato. Il rimpiattino con il nubifragio nel senese ci ha portato a fare 50 km in treno sulla linea Siena – Chiusi, non propriamente una linea minore soprattutto nella stagione turistica, ma ancora orgogliosamente alimentata da un motore diesel tenuto sempre acceso a tirare due carrozze inaugurate forse con la presidenza Saragat. In una delle mete cicloturistiche principali in Italia portare le biciclette su quel treno è un esercizio di pazienza ed equilibrismo, non bene. L’Italia profonda, ma anche quella mediamente profonda, si muove ancora solidamente in macchina, su strade che hanno visto tempi migliori, al massimo in autobus. Con queste infrastrutture, e questa tecnologia, ogni velleità di passaggio integrale all’elettrico tra dieci anni è semplicemente lunare, paradigma di politiche cambrate sulla percezione del mondo che hanno le élite urbane. Non dico che non abbiano ragione, dico che se pensano di avere ragione devono agire di conseguenza.
Sabato sera a Manziana, primo comune della provincia di Roma, la pizza che prepara e serve lo staff africano del ristorante in piazza non è affatto male e ci accompagna fino a Roma. Abbiamo attraversato un gran pezzo di Paese, quasi 700 km e ci abbiamo messo anche due giorni meno del previsto, cinque contro sette. Siamo stanchi ma contenti, forse abbiamo capito qualcosa, sicuramente dei nostri limiti.
Alla prossima avventura.
FINE
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