Costume
Quei cattolici e il terrore di non avere più un sesso definito
Era il 12 maggio del 2007 quando due divorziati e un puttaniere anch’egli divorziato si intestarono politicamente una storica giornata sotto il nobile ombrello del «Family Day», benedetto anche da un buon numero di acquasantiere d’Oltretevere. La piazza era ancora San Giovanni, come la piazza di ieri, la cifra, esagerata, sempre quella: “Un milione di persone”, ma completamente ribaltata la prospettiva. Quella voleva essere una risposta ingenua e vagamente puritana allo sviluppo naturale della società, che in quel momento storico faceva prudentissimi passi avanti verso una modernità familiare più decorosa. Era il tempo dei «Dico», timido accenno di diritti condivisi anche per i non-sposati, che naturalmente nel nostro quarto mondo naufragarono rapidamente al cospetto dell’ilare considerazione di buona parte d’Europa. Sembra passato un secolo, e invece stiamo parlando solo di otto anni fa e proprio questo dislivello tra il poco tempo passato e la rapida evoluzione dei costumi e della scienza, rappresenta il punto centrale di un problema molto più vasto. Al di là delle coerenze personali, che ognuno può giudicare, Berlusconi, Fini e Casini erano semplicemente un fondale politico in cui, neppure tanto sullo sfondo, resisteva l’idea borghese e anacronistica della famiglia perfetta: mamma, papà e un paio di figli dentro il fintissimo mulino. Ecco, rispetto a quel momento, a quel “Family Day”, a quella tensione parareligiosa, sembra passato davvero un secolo.
Il «Family Day» di ieri a San Giovanni aveva tutt’altra prospettiva, tutt’altro obiettivo, tutt’altra immagine. Ampiamente rottamata dalla storia e dalla scienza, la famiglia tradizionale non è più il centro. Il centro è il nostro essere maschio e il nostro essere femmina, la purezza dei due ruoli e delle funzioni (quella riproduttiva ovviamente decisiva), la repulsione per qualsiasi contaminazione possibile e/o immaginabile, l’idea che i figli nascono nell’unica maniera descritta dai vecchi manuali di impollinazione. Il pericolo, come scrive la sociologa Chiara Saraceno, «è l’indistinzione dei sessi, che sarebbe la conseguenza sia di un’educazione che insegni a maschi e femmine a rispettarsi reciprocamente e a non chiudersi (e non chiudere l’altra/o) in ruoli stereotipici e rigidi, sia del riconoscimento dell’omosessualità come un modo in cui può esprimersi la sessualità, della legittimità dei rapporti di amore e solidarietà tra persone dello stesso sesso e della loro capacità genitoriale».
Questa paura di non avere un sesso definito, che una certa corrente di pensiero è riuscita a trasferire a segmenti della società non eccessivamente attrezzati, porta con sé uno scenario apocalittico, e cioè che un mondo così concepito non avrà ancora molto da vivere, non avendo la riproduzione come obiettivo naturale. Ecco il senso di quello striscione-simbolo che ieri campeggiava in piazza San Giovanni: «Qui per amore dei nostri figli». È da notare come in questo contesto sia totalmente scomparso l’elemento “moralità”, che aveva tenuto in piedi il Family Day del 2007. Quindi non sono tanto i costumi personali a essere in discussione o almeno non in modo così marcato. Qui sì, allora, che sarebbe stato più a suo agio il Puttaniere Maximo, che invece, nel frattempo, sul piano delle unioni gay ha dovuto subire le imposizioni molto gaie della fidanzatina Francesca. Intanto il Vaticano osserva tiepido, non avendo più la sponda politica, ancora sbalestrato dal recente tifone d’Irlanda.
Uno dei leaderini di questo nuovo/vecchio movimento contro le unioni gay (e molto altro) è il solito Marietto Adinolfi, vecchissimo arnese concentrato in pochissima carriera. Come l’antico Cacini dell’Ambra Jovinelli si era preparato il “numero”, l’esibizione ad effetto con cui stupire le folle. Marietto ha giocato sulla questione dei figli facendone una questione di censo, di economia, di ricchi contro poveri, di diseguaglianza sociale, di accesso al lusso, considerando un lusso un figlio che non nasca dal grembo materno e sulle ginocchia di mamma rimanga per sempre. Per sorprendere, ha cacciato fuori la storia di un riccastro come Elton John, che si è comprato un baby e poi si è disperato per il dolore della madre. Ha raccontato di fantastiliardi spesi per prendere ogni giorno il latte materno con un aereo privato, ha rappresentato la desolazione umana sotto forma di duello rusticano gaissimo quando Dolce&Gabbana si sono detti contrari alla fecondazione in vitro e quello da Londra non gli ha più comprato le magliette. Insomma, da onesto giocatore di poker, Marietto Adinolfi ha bluffato un po’, giocando sporco sull’idea che avere un figlio in ambito gay non può venire da sentimenti rispettabili, da sincero amore e autentico trasporto, ma solo da capricciose visioni elitarie, secondo cui al gay ricco che ormai ha tutto manca solo il gingillino da tenere in braccio la sera.
Ragazzi che eravate in piazza San Giovanni, papà, mamme con carrozzine al seguito, se la vostra stella polare è Marietto Adinolfi, teatrante anemico di questa povera Italia, meglio cambiare pokerista finchè siete in tempo.
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