Costume

Parole per uscire dalla crisi

17 Agosto 2015

“Resistere non serve a niente”

Rubo le parole a Walter Siti per una riflessione etimologica sul concetto di “ripresa VS crisi” che anima ormai il nostro quotidiano da diversi anni. Viviamo in attesa, a volte trepidante a volte rassegnata, che le cose cambino, che l’economia torni a “girare”, che la crisi si attenui o passi.

La crisi però non passa: forse perché non può passare dal punto di vista economico/finanziario, forse perché etimologicamente dire che la crisi “passa” non ha alcun senso. Abbiamo sbagliato termine. Crisi deriva dal verbo greco krino (discernere, giudicare, scegliere) e l’accezione odierna avrebbe in sé, e nel suo senso compiuto, questo germe: “Andare in crisi, vivere una crisi significa fermarsi e giudicare, cercare di capire, operare una scelta che ci faccia uscire da una situazione che non riteniamo opportuna”.
Allo stato attuale stiamo vivendo una situazione di crisi protratta: il momento puntuale di “scoppio” della crisi, la rottura dell’equilibrio iniziale, quel passaggio B che dovrebbe condurci, in un lasso di tempo circoscritto, da uno stato A (pre crisi) allo stato C (post crisi) si sta dilatando e trasformandosi da momentaneo purgatorio ad inferno a tutti gli effetti.

La soluzione culturalmente più in voga per questo stallo è “resistere”.

Anche qui – però – siamo di fronte ad un gigantesco fraintendimento: resistere significa, dal latino, reggere l’urto/stare saldo e acquista il suo significato in rapporto ad un evento puntuale, reversibile, che conduce – nella prospettiva del resistente – ad uno scioglimento positivo che diventa l’obiettivo finale della resistenza.
La nostra Resistenza è un perfetto esempio: resistere significava lottare perché la speranza di libertà diventasse concreta. Nella mente delle donne e degli uomini della Resistenza c’era un’idea di società precisa e per dare vita a quella società hanno sacrificato o messo momentaneamente “in stallo” la loro vita come individui. Nulla di più nobile.

Ma possiamo parlare di resistenza di fronte a questa crisi? Ha senso? Vale la pena di affrontare il sacrificio esistenziale richiesto da una soluzione “resistente”?

La mia risposta chiaramente è no, non ne vale la pena, perché non abbiamo un obiettivo che non sia la prosecuzione di un accanimento terapeutico che non porterà a nulla. Il modello economico/sociale del “boom” non solo è un malato terminale, ma potenzialmente contagioso, perché – date le risorse che richiede per restare in vita (a spese dell’ambiente e della salute) – quanto più si tenta di rianimarlo, tanto più “infetta” l’habitat in cui viviamo.
Siamo arrivati al punto massimo di espansione. Questo non significa che tecnologie, scoperte scientifiche e progresso culturale in genere abbiano esaurito le loro potenzialità, ma ciò che si è esaurito è il motore ideologico d’indirizzo: “more is better” non può più essere l’idea di fondo che guida lo sviluppo.

Terza etimologia. Sviluppo è una parola difficile, perché incerto è il suo etimo. La teoria più diffusa è che derivi da viluppo e quindi dal latino volvere. In questo caso il termine significherebbe “sciogliere la matassa”. Quale termine più adatto al presente!

Viviamo una crisi e quindi abbiamo bisogno di operare una scelta. Questa scelta può implicare una risposta di resistenza – continuare a cercare di recuperare terreno in una battaglia che però è finita a nostra insaputa – oppure di sviluppo: fermarsi, per un periodo di tempo limitato, e sbrogliare la matassa, far riprendere il fluire degli eventi grazie a un nuovo pensiero guida.

In questo periodo si sta affermando e diffondendo una nuova parola chiave: resilienza. Prestata all’uso giornalistico dalla psicologia, implica una capacità di mutamento positivo dell’individuo di fronte alle avversità esterne. Il resiliente non resiste all’urto, ma si adatta senza tuttavia perdere la sua identità profonda.
In questo senso il termine è decisamente più efficace per individuare una risposta positiva all’attuale stato delle cose, ma – ancora una volta – non implica il concetto di ridefinizione. La resilienza permette all’individuo di sopravvivere in situazione difficili o inadatte al suo modello di esistenza. Implica sopravvivenza, mutamento personale, ma non incisività sul reale.
Ed ecco l’ultima – e decisamente più “banale” – etimologia: esistenza, dal latino exsistere, esserci, essere presente.
Credo che a questo termine dovrebbe far riferimento chiunque abbia voglia di trovare una soluzione alla crisi. La proposta di un nuovo modello di sviluppo, che preveda uno “sbrogliarsi della matassa” funzionale alla liberazione degli individui dal concetto di resistenza (o resilienza) in funzione dell’affermazione di un modello di esistenza viva, attiva, critica.

Porre l’esistenza al centro.

Ma questo implica la presa di coscienza che, senza uno sforzo culturale attivo, la crisi non passerà. Attendere non serve.

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