Costume

«Noi figli non ne vogliamo». Viaggio nel mondo childfree

7 Febbraio 2019

In italiano non esiste una singola parola per indicare le persone senza figli. In inglese ce ne sono due: childless e childfree. A distinguerle, più che una sfumatura, c’è un universo di significati. La prima si usa per le persone che non hanno figli loro malgrado: che ci provano, ma che non riescono per cause fisiologiche. Con childfree si indicano invece le persone che decidono, volontariamente, di non procreare. E di childfree, nel mondo – e in particolare in Occidente – ce ne sono sempre di più; tanto da avere ormai anche una loro giornata internazionale (il 1° agosto).

Cifre precise sul fenomeno non ce ne sono, per il momento. «La maggior parte delle ricerche sulle persone senza figli non distingue tra chi ha liberamente evitato di averne e chi non ne ha avuti per altre ragioni – dice a Gli Stati Generali Amy Blackstone, docente di sociologia all’Università del Maine e autrice del saggio “Childfree by choice” in uscita a giugno per i tipi di Penguin Random House –. Una stima, basata su un campione rappresentativo degli Stati Uniti, suggerisce che circa metà delle donne che non hanno mai procreato sono childless per circostanze esterne alla loro volontà, e circa la metà sono senza figli per scelta». Childfree, appunto.

I numeri cambiano se si guarda all’Europa (e all’Italia). Secondo uno studio pubblicato sul Finnish Yearbook of Population Research, nell’Europa a 27 la media delle persone fra i 18 e i 40 anni che non intende avere figli è dell’11%. I paesi dove le donne childfree superano il 10% sono Svizzera, Lussemburgo e Belgio, mentre in Italia si collocano intorno al 4%. La situazione è invece più variegata al maschile: gli uomini childfree sono più del 10% in Olanda, Svizzera, Austria, Germania, Svezia, Lussemburgo e Spagna. Gli italiani si collocano sotto la media EU27, intorno al 9%.

«Il movimento childfree ha mosso i primi passi negli Stati Uniti nel 2013 – spiega Paola Di Nicola, professoressa di sociologia della famiglia all’Università di Verona –, e si sta diffondendo rapidamente grazie alla crescente velocità con cui circolano le informazioni». Sia chiaro, il desiderio di non procreare non è minimamente una novità, né per gli uomini né per le donne. «Il movimento childfree non rappresenta nulla di nuovo o rivoluzionario – precisa Di Nicola –, ma è la logica conseguenza di un clima culturale e politico che vuole assicurare ampia libertà nel privato». Il punto è che per i childfree del 2019 dichiarare di esserlo equivale a una presa di posizione, e talvolta anche a una fiera rivendicazione.

I motivi della scelta childfree sono i più disparati. C’è chi preferisce vivere la propria vita senza gli obblighi derivanti dalla genitorialità, e viaggiare, godere appieno del proprio tempo libero, dedicarsi al rapporto di coppia, agli affetti e agli amici, al lavoro. C’è chi ritiene che sia sbagliato contribuire al sovrappopolamento, in un pianeta che supera già i 7 miliardi di abitanti. C’è chi non fa figli per paura: a loro parere la mezzanotte è vicina, il rischio di un conflitto termo-nucleare o un’estinzione di massa è concreto. Infine (e questo, per ovvi motivi, vale soprattutto per le donne) c’è chi non vuole fare figli per motivi filosofici e politici, nella convinzione che la realizzazione di sé non dipenda dalla procreazione. «L’unica cosa di cui sono sempre stata sicura, sin da bambina, è che non voglio avere figli – dice Chiara, impiegata trentaseienne di Roma –. Non ne ho mai sentito la necessità e tantomeno la voglia. L’idea di sottopormi alla gravidanza e al parto poi, è semplicemente inconcepibile».

Christen Reighter è nata e cresciuta nel super-conservatore stato del Texas, dov’è in vigore una delle leggi sull’aborto più restrittive (e colpevolizzanti) d’America. 27 anni, scrittrice e psicoterapeuta, Reighter è anche una delle attiviste childfree più famose degli Usa. In poco più di un anno, il video del suo discorso a una conferenza TED ha totalizzato 1 milione e 200mila visualizzazioni su YouTube.

«Nessuno dovrebbe essere indotto a sentirsi incompleto o inferiore perché i suoi valori, obiettivi e scelte di vita lo spingono ad astenersi dal procreare – dice Reighter a Gli Stati Generali –. Le persone dovrebbero essere incoraggiate e sostenute per quello che sono, in modo da far fiorire le loro capacità. Avere un figlio, allevarlo, è soltanto uno di molti modi possibili per dare un contributo al mondo».

Su questo concorda Giacomo, 30 anni, piccolo imprenditore della provincia di Padova, che per motivi personali non vuole rendere nota la sua identità. «Personalmente mi piacerebbe molto essere padre – racconta –, ma non credo sia giusto avere uno o più figli in un mondo già affollatissimo, allo stremo delle forze da un punto di vista ecologico e morale. Preferirei adottare e aiutare dei bambini che sono rimasti senza una famiglia». In effetti secondo diversi studi, esperti e ONG, l’idea che non avere figli (o averne di meno) possa contribuire a contrastare il cambiamento climatico è tutt’altro che infondata.

Kimberly Nicholas, del Centre for Sustainability Studies dell’Università di Lund (Svezia), e Seth Wynes, studente di dottorato presso l’Università della British Columbia (Canada) sono gli autori di un articolo scientifico intitolato “The climate mitigation gap”. A GSG Wynes spiega che «esistono 4 azioni a elevato impatto che le persone nei paesi sviluppati possono intraprendere per contribuire a ridurre il cambiamento climatico: avere una famiglia più piccola (ossia fare meno figli), vivere senza auto, evitare i viaggi in aereo e seguire una dieta vegetariana».

I dati illustrati nel loro articolo scientifico dimostrano che «avere famiglie meno numerose è una delle azioni più efficaci per contrastare il cambiamento climatico a livello individuale – continua Wynes –. Nei paesi sviluppati le persone consumano più risorse del necessario, quindi ogni persona in più si traduce in un maggior consumo di risorse e in maggiori emissioni di gas serra».

Population matters è un’ONG inglese attiva dal 1991. Oltre a produrre pubblicazioni e rapporti scientifici, «promuove soluzioni positive, pratiche ed etiche per incoraggiare le persone ad avere famiglie meno numerose e a consumare in maniera sostenibile» spiega Alistair Currie, suo responsabile campagne e comunicazione.

Sulla terra vivono più di 7 miliardi e 600 milioni di persone. “La popolazione mondiale ha avuto bisogno di arrivare all’inizio del XIX secolo per raggiungere il miliardo. Ora aumenta di un miliardo ogni 12-15 anni. Perdita di biodiversità, cambiamento climatico, inquinamento, deforestazione, scarsità d’acqua e di cibo sono tutti accentuati dal numero esorbitante, e sempre crescente, di esseri umani” si legge sul sito di Population matters.

«Le persone capiscono molto facilmente i nostri argomenti, e sono molto ricettive – continua Currie. – Non si tratta di costringere nessuno a niente, è ovvio. E ricordiamo che riuscire ad avere una famiglia con solo due figli, in molte parti del mondo, è una sfida considerevole. Ma dai due in giù è quello che auspichiamo, e promuoviamo, per le persone economicamente stabili e che possono accedere una buona pianificazione familiare».

Sui metodi contraccettivi c’è chi, tra i childfree, opta per la sterilizzazione; che consiste perlopiù in un intervento di legatura delle tube nelle donne, e di vasectomia negli uomini. Una pratica legale in molti paesi, e che non è certo appannaggio esclusivo dei childfree. Per Christen Reighter, che vi si è sottoposta dopo aver provato altri metodi anticoncezionali, «l’accesso alla sterilizzazione legale e sicura rientra nella stessa battaglia per l’accesso a qualsiasi metodo e servizio di contraccezione legale e sicura. Per chi necessita o desidera una garanzia permanente di non procreare, si tratta decisamente di un metodo che andrebbe discusso con il personale sanitario».

Ma quelle che a molti, specie fra i childfree, sembrano prese di posizione ovvie e naturali, per molti altri sono scelte radicali e assai difficili da comprendere. Naturalmente in molte parti del mondo ne è passata di acqua sotto i ponti da quando le donne “sterili” erano ripudiate (dando per scontato che l’infertilità fosse una “tara” solo femminile). Tuttavia ancora oggi la maternità tende a essere vista, e rappresentata, come la piena realizzazione dell’essere donna; una tappa, se non obbligata, perlomeno auspicabile.

«Lo stigma verso chi decide di non avere figli è senz’altro diminuito, ma decisamente resiste ancora – osserva Blackstone–. Varie ricerche dimostrano che, ancora oggi, i childfree sono visti come degli egoisti rispetto a chi procrea. E che le donne childfree, in particolare, sono considerate “meno donne”, o non degne rappresentanti del genere femminile, perché appunto non sono madri».

Basta fare un giro tra i profili social di persone o gruppi childfree per accorgersene. Tra i commenti se ne leggono alcuni come: “Il figlio è la più bella e grande soddisfazione che possa onorare la nostra esistenza”; “non ci sono più le donne di una volta”; “siete degli idioti, estinguetevi rapidamente”; “non sapete cosa sia l’amore”.

Ciò che Reighter vuole combattere sono proprio le pressioni sociali che impongono la genitorialità come un dovere o un desiderio che dovrebbe essere innato. «Col mio lavoro voglio dire a una donna (e a qualsiasi individuo) che lei è già completa – afferma –. Che quella di procreare deve essere una sua scelta, e non un atto da compiere per soddisfare le aspettative sociali o familiari, o la presunta felicità di una persona amata».

Per Duccio Demetrio, già docente di filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, dichiararsi childfree oggi non è più problematico come un tempo. «Nei paesi occidentali ci muoviamo all’interno di una cultura del soggetto, dell’individuo, e di conseguenza le nostre libertà di scelta vengono al primo posto – spiega –. Libertà di scelta che sono anche una manifestazione importante di responsabilizzazione, di sé ma anche delle relazioni amorose, affettive». Per Currie «è bello vedere una consapevolezza crescente che essere childfree è una scelta positiva, che va a vantaggio di tutti, e non una sorta di fallimento personale».

Una cosa è certa, e lo dicono i dati: una rielaborazione del significato di genitorialità sta diventando sempre più cruciale. Soprattutto per le donne, che nella maggior parte dei casi vengono ancora educate a pensare alla maternità come a una tappa naturale della propria esistenza. Perché figli, in Italia, se ne fanno sempre meno. Ma spesso non per scelta. Nel rapporto Istat di novembre 2018, si legge che “la fase di calo della natalità innescata dalla crisi avviatasi nel 2008 sembra aver assunto caratteristiche strutturali”.

«In base alle ultime statistiche, in Italia la quota di donne che completano la loro vita riproduttiva senza aver avuto figli è cresciuta dal 10% della generazione della metà degli anni ’50 a oltre il 20% di quella nata all’inizio degli anni ’70 – dice Adele Menniti, demografa ed esperta per gli studi su popolazione, genere e società dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (IRPPS) –. Si tratta di un aumento consistente, che pone l’Italia ai vertici della classifica europea».

Difficile determinare anche quanti, fra gli autoproclamati childfree, lo siano per autentica convinzione piuttosto che come risultato di un processo di elaborazione e rassegnazione a fattori esterni. Come sottolinea lo studio citato all’inizio dell’articolo, alcuni di coloro che hanno posticipato il primo figlio, o si consideravano solo temporaneamente senza figli, e poi non sono riusciti a procreare (ad esempio a causa dell’età avanzata, o di problemi economici), possono reagire presentandosi come childfree da sempre.

Non è difficile immaginare perché alcuni possano optare per una sorta di rielaborazione ex post delle proprie convinzioni: l’essere senza figli è una condizione che può causare grandi sofferenze, come spiega a GSG Adriano Stefani, psicoterapeuta attivo a Roma. «Ho seguito persone che, non potendo avere figli, hanno dovuto fare una vera e propria elaborazione del lutto, dove il lutto è il progetto di una vita con dei figli».

Demetrio, da parte sua, all’essere senza figli ha dedicato un intero libro: “Senza figli, una condizione umana” (Raffaello Cortina editore). «Anche dopo aver fatto delle dichiarazioni di principio – afferma – non è detto che, trascorso del tempo, non emerga un’importante e significativa sensazione, che non può essere trascurata, di non aver ottemperato a un compito genetico. Compito genetico che poi se ne infischia delle prese di posizione, e resta dentro come un vuoto. E allora si ergono delle ideologie per difendersi dalle scelte compiute. Scelte che non stigmatizzo affatto, ma che costituiscono delle fenomenologie (in senso filosofico) con le quali bisogna fare i conti».

Insomma, quelle che oggi paiono convinzioni irremovibili, un giorno potrebbero diventare fonte di rimpianto. «È un rischio che sono disposta a correre – replica Chiara –. Sono sposata e qualche mese fa mia madre mi ha ricordato che il tempo passa e di pensarci bene perché un giorno potrei pentirmi di non averci neanche provato. Ma per me non esiste».

In effetti il fattore tempo non è da trascurare. Anzi, secondo le esperte sentite da Gli Stati Generali, è uno dei motivi principali dietro al calo delle nascite in Italia. «La propensione delle donne fertili a generare figli è in calo dalla seconda metà degli anni ’70 – nota Di Nicola –. Su questa diminuzione pesano vari fattori. In particolare, lo spostamento in avanti dell’età in cui le donne generano il primo figlio, che fa diminuire le probabilità che generino il secondo e aumentare le probabilità che non arrivi neanche il primo, per l’invecchiamento degli ovociti».

Ma lo slittamento delle “grandi tappe” nella vita delle donne (e degli uomini) non riguarda soltanto la procreazione. Ad esempio sono sempre più tardivi anche il matrimonio o la convivenza, e la stabilizzazione lavorativa. Quest’ultima, in particolare, è molto importante secondo Di Nicola. «Molte donne puntano sull’autonomia economica perché il matrimonio non è più visto come per la vita, e crescono le probabilità che una donna debba crescere i figli da sola». Ancora, sottolinea la docente, «per le donne la realizzazione personale non si radica più in un’unica sfera, quella della famiglia e della maternità, ma abbraccia altre dimensioni, incluse quella lavorativa e sociale».

Un cambiamento profondo di fronte al quale, però, «la società italiana sembra essere rimasta fredda, e poco solidale con le donne che dedicano tempo ed energie a studiare, lavorare e crescere figli – nota Menniti –. Oltre a lanciare allarmi per un paese senza culle, poco è avvenuto in Italia a sostegno di chi ha responsabilità genitoriali, a parte qualche soluzione tampone. Ma in definitiva la bassa natalità non è solo una risposta alle difficoltà di realizzare un progetto impegnativo qual è quello di un figlio, in termini di insicurezza, costo economico e paura del futuro. È anche una risposta a una politica poco attenta ai bisogni delle coppie. E, in particolare, delle donne».

 

 

Immagine in copertina: Pixabay

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