Costume
#metoo, un anno dopo
È già passato un anno da quando con gli articoli di Ronan Farrow sul New Yorker è scoppiato il caso Weinstein che ha dato origine al “movimento” del #metoo. È tempo di doverose riflessioni anche se per i bilanci forse è ancora presto, l’opinione di chi scrive è che tutto sommato la società occidentale ne abbia tratto e ne trarrà beneficio.
In Italia l’abbiamo vissuta con un “filtro europeo”, in una variante non dissimile da quella dei cugini francesi, tutti un po’ preoccupati di non reprimere le rinomate doti di seduttori dei maschi italici. Ma soprattutto siccome una delle protagoniste (in positivo e in negativo) era italiana siamo rimasti invischiati nei dettagli degli effetti sui vip preoccupandoci un po’ meno delle conseguenze sulla vita delle donne normali.
Penso che la valanga di storie e racconti collegate al #metoo abbia quantomeno raggiunto l’obiettivo di segnalare l’iceberg che galleggia nelle nostre società. Ci siamo accorte, e accorti, che qualche forma di violenza e/o abuso è molto diffuso, troppo tollerato e troppo poco denunciato. Quelle storie e quei racconti non saranno stati tutti veri, pochissimi con rilevanza penale, qualcuno sarà stato frutto di incomprensione, ma se guardiamo all’insieme i grandi numeri ci dicono che c’è un problema. Un problema di esercizio dell’influenza e del potere che spesso si manifesta attraverso la richiesta di prestazioni sessuali, ma non solo. A volte sono solo le battute e i commenti a una posa, a un vestito, che però se sono rivolte a chi non può risponderti a tono sono una piccola violenza. Ci sono un ventaglio di manifestazioni che sono assolutamente legali ma che forse non dovrebbero essere più tollerate.
L’aver portato in prima pagina questo tipo di discussione è l’indubbio merito di quello che è successo in questi passati dodici mesi. Nel vortice abbiamo avuto qualche eccesso e spero che a questi si rimedierà in fretta (penso a Louis Ck e a Kevin Spacey, ma ovviamente ce ne saranno altri) ma credo che questi casi non riescano a cancellare i benefici complessivi. Benefici che non sono offuscati nemmeno dalla scoperta che ci sono donne che abusano del loro potere, ogni tanto la parità esiste davvero.
Ora però dobbiamo imparare a gestire quello che abbiamo scoperto in questi mesi, e valutarlo per quello che deve essere: una spinta al cambiamento. Cambiamento che non misureremo con il numero di condanne o il numero di società quotate in borsa che adottano un “diversity protocol”. Le donne che denunciano, in generale, avrebbero preferito non arrivarci e quello che sperano di ottenere è un ambiente più sereno in cui lavorare e non un mondo dove al venerdì nessuno le invita più a bere una birra con i colleghi.
Non manca infatti chi mette in guardia contro “la caccia alle streghe”, i processi sui social media e la fine dei giochi di seduzione tra colleghi in un mondo che si avvia a diventare sessuofobico. Credo che nel breve periodo possa succedere, ma nel medio spero che sarà evidente che non si sta criminalizzando il sesso usato come si crede tra adulti consenzienti, ma un abuso di potere. Quindi è ovvio che chi ha più potere dovrà preoccuparsi di più degli effetti del suo comportamento, non mi sembra scandaloso. Oneri ed onori si diceva.
In sintesi la legislazione e i tribunali non ci risolveranno il problema, è una questione di norme sociali che vanno cambiate affinché le molestie accadano sempre di meno. Cambiare le norme sociali però richiede tempo e penso che sia importante non perdere di vista l’obiettivo anche quando accadono eventi da iperreazione che ci fanno storcere il naso. Per questo bisogna riflettere su come si accede e si esercita il potere e creare una cultura della responsabilità. Infine è innegabile che le donne crescano meglio professionalmente e lavorino più volentieri dove ci sono donne che contribuiscono a creare un ambiente che tuteli e favorisca la diversità di genere.
bonus link: il one year later del NewYorker
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