Costume
Ma voi siete felici? Quanto è sostenibile l’infiammazione di una società triste
Quando, e come, esattamente il nostro rapporto sociale, economico, politico (e sospetto individuale) con le prospettive e la felicità è diventato paurosamente simile a quello dei tifosi delle squadre italiane con il calciomercato, ossia una lunga ansiosa apnea nell’unica speranza che non crolli tutto?
Me lo sono chiesto leggendo un pezzo molto ben scritto di Vittorio Ray su Zerocalcare e la felicità, in cui si da conto di come un largo, quasi totalitario, pezzo di cultura della Sinistra gliel’abbia data su con l’idea della felicità come meta raggiungibile, a partire dalla prospettiva storicamente più semplice ed evidente, che era quella dell’ emancipazione attraverso il lavoro. L’unica prospettiva decente “resta quindi il viaggio “fuori dall’infelicità”, cioè dal capitalismo e dallo sfruttamento, ma senza la possibilità di approdare ad una mèta positiva”, traducibile in “mai una gioia”.
Non aderendo per età, provenienza e riferimenti culturali a quel mondo che Zerocalcare rappresenta così bene, e che sono persone di età media anche della metà del sottoscritto, autorizzate alla leggerezza della giovinezza, che non paiono praticare, non posso però fare a meno di notare che qualcosa di simile accade anche nella mia bolla. Che è fatta di persone di mezza età (35-60), media classe, buoni studi, alimentazione adeguata e diritti tutelati: sono, siamo, socialmente, professionalmente (e per molti, quasi tutti, individualmente) strutturalmente tristi, insoddisfatti e con lo stesso atteggiamento al futuro degli interisti e dei milanisti fino a settembre, chiedendoci se oltre Tonali e Brozovic dovremo cedere anche Onana e Maignan o se gli sceicchi ci risparmieranno. Bella roba.
Perché? Siamo tutti lavoratori dei servizi avanzati (siamo dottori), di buona famiglia di provenienza e quasi tutti viviamo in città o tra città, quindi l’analisi non può che partire da qui, visto soprattutto che è forte l’impressione che l’età c’entri relativamente, dacché i più giovani stanno anche peggio di noi. La pandemia dite? Bah, siete così sicuri che a dicembre 2019 stavate molto meglio di adesso?
La prima, per ampio distacco, fonte di insoddisfazione è il lavoro. Io non ho amici rider, quindi parlo di infelicità relativa (che in quest’epoca è assoluta) ma non posso che rilevare che quasi non conosco persone mie pari non insoddisfatte professionalmente. Il lavoro, in particolare quello che si voleva pulito, creativo, regolato, rispettabile, sta costantemente tradendo le premesse. Nella mia bolla (sono io ad essere sfortunato?) si lavora male, certamente peggio di “prima”, con la sensazione incipiente che quello, organizzazioni, modelli di business, reputazioni, che è stato in piedi per decenni possa improvvisamente crollare, e comunque che tocchi vivere con i ponteggi. La tecnologia, in attesa del Golem dell’Intelligenza Artificiale non ha migliorato l’antropologia aziendale, anzi. L’ipercomunicazione, il feticcio di chi e come mettere in “cc” nelle mail, ha svelato tutte le smagliature di organizzazioni, tanta parte del mondo dei cosiddetti servizi avanzati, in cui il senso del lavoro è evaporato. Quando fate call con otto persone, metà delle quali non spiccicherà parola, state facendo un viaggio nell’alienazione digitale, punto. Si presidia un pezzettino minuscolo del processo, ringhiando contro chi lo insidia, con buona pace delle organizzazioni piatte. Si chiude la call, si lascia l’ufficio e si entra in quell’altro soggetto problematico che sono le nostre città, in cui o le cose fisicamente vengono giù (Roma), o quando sono fighissime non sono per noi (Milano). Di nuovo, mai una gioia, quello che ci hanno raccontato, che ci siamo raccontati (essendo molti di noi pagati per produrre storie), è un po’ una sòla.
Chi è sufficientemente vecchio sa che quando è entrato in azienda, o quando i propri genitori lavoravano in aziende simili, in impieghi simili, le cose erano un po’ diverse. Organizzazioni lente, gerarchiche e burocratiche (non che non lo siano anche le attuali) si permettevano di pensare, investire, gratificare.
I soldi sono finiti ed è giusto così dalla prospettiva del ragioniere, ma quanto, e come, può vivere una società fondata sul “d’ora in poi”? L’insoddisfazione collettiva, la somma di bolle insoddisfatte, genera un’infiammazione diffusa che, non serve essere medici, non fa bene. Certamente pesa anche l’età: siamo il Paese più vecchio del mondo, stiamo ulteriormente invecchiando, non si fanno figli (ci vuole un po’ di entusiasmo e incoscienza a fare figli, e noi siamo spenti ma lucidissimi), non abbiamo più energia.
L’energia di un paese, ce lo siamo dimenticati, è fondamentale perché permette di andare avanti, con un piano B, fosse anche quello per cui “arricchirsi è glorioso”, che ci ha guidato collettivamente negli anni in cui abbiamo dato il nostro meglio, quando il grande futuro non era dietro di noi, “facendo” famiglie e imprese, anche consumando quando faceva status. Cose brutte, ma anche propellenti sociali di cui non si è trovato il sostituto. Un signore che è appena morto, che sorrideva spesso e diceva ai suoi di sorridere altrettanto, ci aveva fatto una fortuna con la storia del sole in tasca, e aveva almeno in quello assolutamente ragione.
Ho smesso da tempo di pensare che la Politica possa fare davvero la differenza in termini di felicità personale, se non come impegno a fare le cose, passione, o possibilità di rendere le nostre vite miserabili. Non si può tuttavia non considerare che la felicità è completamente espunta dalla Politica. Siamo passati dall’ averla messa nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana a non parlarne più. Anche nel nostro piccolo lago, la Destra predica nostalgia e diffidenza, la Sinistra lavora solo su velleitari schemi per la difesa, che non superano mai il centrocampo di non perdere altro terreno, figuriamoci conquistarlo. Non si parla di felicità, non è cosa.
Che fare? Non lo so, mi dispiaccio molto per l’insoddisfazione altrui, e pure per la mia. Penso che il primo che parlasse di felicità senza sembrare strafatto o senza farla passare per l’infelicità altrui lo voterei di corsa. E vado in bicicletta, scrivo, cucino, mangio e faccio altro di privato, ché se le grandi soddisfazioni spariscono, rimangono quelle piccole, rotonde, morbide e fragranti. In attesa che chiuda il maledetto calciomercato.
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