Costume

Ma siamo pronti a prendere ordini da una donna?

10 Dicembre 2019

Non ho mai avuto un capo donna. Ometto del novecento, ne avrei probabilmente sofferto. Un paio di settimane fa, Raitre ha mandato in onda il racconto di Marisa Bellisario, grandissima manager di anni particolarmente maschili. Fu il capo dell’Italtel, e si era tra il Settanta e l’Ottanta. Sorridevo mentre scorrevano le parole dei suoi dirigenti, ancora piene della sua personalità, forte, decisa, equilibrata. C’era ammirazione e ancora una punta di timore sottaciuto. C’era il lavoro, il suo adorato marito, i suoi cani. Se non adorati come il marito, siamo lì. Farsi largo tra i maschi fu impresa ragguardevole, persino titanica nell’osservare quelle distese sterminate di completi grigi, dove spiccava un unico tailleur superelegante e una chioma particolarmente vivace. Era la Marisa Bellisario che sembrava essere sempre stata lì. Nessun imbarazzo, nessuno smarrimento. Nel Novecento, avremmo banalmente concluso che era un maschio, perché solo al maschio toccava il decidere sulle cose e sulle persone. Temo sia un retaggio ancora molto attuale.
Avrei sofferto con un capo donna, dicevamo.

Primo, per un motivo di mancata riconoscibilità sociale. Se non vedi mai una donna che comanda, passerà il concetto che è perché non se lo merita, che non c’è da fidarsi, che non sarà all’altezza. E se per caso sfonda, si può sempre inquinare il pozzo con qualche maldicenza. Il secondo motivo è che se una donna, che mettiamo sia il tuo capo, ti dice di fare una cosa, è perché sta esercitando sul maschio, che in quel momento sei tu, una vendetta della storia. Si sta prendendo il suo legittimo risarcimento, insomma te la sta facendo pagare. Quindi, ne si delegittima ogni azione professionale con la scusa che le donne sono state discriminate per troppo tempo e ora ritengono di dover colmare quell’enorme divario. Il terzo motivo è sessuale. Sottotraccia, quell’idea di sopraffazione sessuale nei confronti della donna è rimasta sempre molto viva nella testa dei maschi, giacché la sua traduzione professionale riporta gli attori su un terreno che non è più squisitamente burocratico-professionale, da capo a sottoposto, ma da donna a maschio che si ritiene sessualmente il capo branco.
Tutti questi motivi che hanno animato il Novecento, in larga misura fanno ancora parte del nostro tempo. Un tempo che non ha neppure ancora stabilito come fare per riequilibrare la stortura della Storia, che esibisce con rara nettezza il disequilibrio sociale tra le donne e gli uomini. Parliamo di Italia, naturalmente. Qui nel paesello, crediamo sia sufficiente emozionarsi per gli “altri” per avere la coscienza a posto. Il meccanismo poi è sempre lo stesso: accade che in qualche parte del globo, a una donna sia riconosciuto un ruolo politico o anche sociale di primo livello e scatta il sentimento (impotente) della riproducibilità.

L’ultimo caso è quello di Sanna Marin, la 34enne premier finlandese, la più giovane al mondo, che sarà a capo di un esecutivo a maggioranza femminile, scandalo nello scandalo. In questo caso poi, il destino si è particolarmente accanito sulla parte destruens delle nostre vite, la parte Giovanardi diciamo così, perché Sanna è nata addirittura da due mamme. Figuriamoci. Nei racconti italiani lo si è aggiunto come un elemento succulento, scatenando un certo orgoglio social, ma dalle loro parti non è più che una mera questione anagrafica. Deciderà la politica e solo la politica se Sanna Marin è brava oppure no. Qui da noi, come un arlecchinata istituzionale dopo lo sfregio sulla commissione contro il razzismo, qualcuno ha pensato a Liliana Segre come capo dello Stato. Una vera mancanza di rispetto.

Ma che primo passo possiamo fare per sbrecciare il muro patriarcale che resiste ormai da secoli? Donne di una certa personalità fanno una scelta decisa: portano sé stesse dovunque vengano chiamate, che siano consessi interamente maschili o a larghissima densità maschile. Fanno un ragionamento perfettamente legittimo: sono donna, viene riconosciuta la mia competenza, parlerò liberamente senza che nessuno possa esercitare la minima censura. Condizioni necessarie che, se rispettate, portano una professionista a dare il suo contributo senza porsi minimamente il problema dell’essere identificata come “foglia di fico”, come copertura femminile al dominio dei maschi, che con quella sola presenza si garantirebbero una coscienza pulita. Sono donne che, generalmente, rifiutano in radice l’idea delle «quote», considerandole quasi un insulto, uno sfregio alla condizione femminile. Dall’altra parte, per converso, ci sono donne che, prima di ogni altra considerazione, esaminano il «contesto». Lo mettono ai raggi X. Sia da un punto di vista delle proporzioni squisitamente numeriche – quanti uomini e di conseguenza quante donne – sia da un punto di vista dei contenuti. Non importa, quindi, se tu potrai parlare liberamente. Importa anche e molto dove le tue parole, i tuoi concetti, cadranno. In quale contesto “politico”. In quale condizione sociale. Sono delle rompicoglioni queste donne, rientrano nella categoria delle incontentabili, che ricercano quasi maniacalmente il conflitto pur di rappresentare il loro punto di vista, o, piuttosto, sono l’indispensabile pacchetto di mischia, per usare una figura rugbystica, che può arginare la tracimazione maschile e proporre magari un nuovo modello di convivenza?

Non è affatto scontato che anche queste donne siano favorevole alle quote, avendo anch’esse personalità molto ben definite. Per cui, non è raro che le due tipologie femminile che abbiamo appena raccontato si ritrovino, seppur per percorsi diversi, sotto lo stesso cielo del No quote-rosa. E allora com’è possibile che consessi sociali molto più avanzati del nostro, l’Europa del Nord appunto, siano riusciti nell’impresa titanica di imporle per legge, sia nei consigli di amministrazione di società pubbliche e private, per esempio? Hanno probabilmente considerato che quello che in radice poteva apparire come una forzatura delle private sensibilità, nel tempo si sarebbe trasformato in una vera risorsa per il paese. Per le generazioni future. E così è stato. Perché è su questo che si gioca la partita: siamo disponibili, siete disponibili, a mandar giù il rospo di un’imposizione, vivendolo come un male necessario, pur di creare le condizioni per un futuro decisamente più equilibrato tra uomini e donne? Se partono le quote, quote vere non farlocche, tra un po’ di anni tutto scorrerà in automatico.

Ma poi al fondo, la questione ridiventa maschile. Toccherebbe uno sforzo dei maschi. Ce la possono fare? Possono far partire un processo che ne metta in discussione il potere? Sono pronti, siamo pronti, a prendere ordini da una donna, senza considerarla un’inaudita visione del mondo?
Perché poi, alla fine, di questo anche si tratterà.

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