Lupo, Pizzo, e i ragazzi guariti dal cancro

Daniele Lupo e Paolo Pizzo non sono solo accomunati dal fatto di aver vinto un argento alle Olimpiadi di Rio. Entrambi, infatti, si sono lasciati alle spalle un pezzo di vita in cui hanno dovuto fare i conti con un cancro.  Entrambi sono guariti e, alla pari di chi non ha avuto la stessa esperienza si sono allenati, hanno gareggiato, hanno vinto. E’ infatti fuorviante e sbagliato – è ora di prendere posizione netta in merito – stigmatizzarli come più bravi e migliori di altri perché “hanno vinto la battaglia” perché “hanno sconfitto un nemico più grande”. Queste frasi non vogliono dire nulla. E soprattutto rischiano di inscatolarli in una retorica della malattia che si porteranno dietro per tutta la vita. Anche questa è una forma di discriminazione.

Più di 17o mila persone che si sono ammalate di cancro in Inghilterra tra gli anni 70 e gli anni 80 sono vive. Una numero straordinario secondo gli esperti come ha riportato in un articolo di qualche giorno fa il Guardian. Merito del fatto che sono diminuiti gli effetti collaterali di molte delle terapie. Merito dei progressi della medicina.

Accanto a questi ultimi dovrebbero correre di pari passo i progressi sul fronte sociale. Ammalarsi di cancro e guarire oggi non è più una rarità. Si muore ancora, è vero, e anche tanto. Ma si vive ed è ora che anche i medici si liberino dalla “timidezza” e si esprimano forte e chiaro quando le probabilità per chi è guarito di tornare ad ammalarsi sono pari a quelle di una persona sana. Una sorta di patentino, da leggere in positivo, ovviamente. Sarebbe un primo passo per far crescere una nuova cultura parlandone, spiegando chiaramente. Fornendo quando è il caso come è stato fatto in Gran Bretagna i dati.

Accanto al contesto sociale devo confessare  in ogni modo che le medaglie di Lupo e di Pizzo e i suoi compagni di spada sono state quelle che mi  hanno commossa. Credo che al cuore di chi sa la fatica della risalita hanno mosso qualcosa in più. Ed è giusto che sia così.