Costume

Liturgie mediatiche

6 Maggio 2020

La voglia di giustizia del filantropo progressista si ferma alla soglia di casa sua e la sua sete di eguaglianza si spegne un attimo prima di giungere alla sorgiva dell’ingiustizia e della disuguaglianza.

Quando si tratta di riconoscere che nulla giustifica il fatto che lui possieda casa al mare e in montagna, viaggi, frequenti ristoranti e alberghi a cinque stelle mentre si contano a milioni quelli che a malapena sopravvivono, il filantropo cambia discorso oppure, se insisti, ti risponde piccato: “quello che ho me lo sono guadagnato e me lo merito”.

Un altro dei suoi punti fermi è infatti la bella “meritocrazia”.

Inutile far notare che, se non si comincia la gara dagli stessi blocchi – economici – di partenza e non si ha lo stesso supporto – economico – durante il percorso, se uno ha la tata di madre lingua inglese, frequenta le scuole migliori, fa il master ad Harvard e l’altro studia in cucina mentre prepara il pranzo e d’estate va a fare il cameriere, la “meritocrazia” non è solo una stronzata ma è molto peggio: è il travestimento ipocrita della criminalità sociale.

I personaggi “pubblici” che, attraverso i media nazionali, godrebbero della possibilità di esprimere questa banalissima verità, però, fanno parte proprio del novero di quelli che usufruiscono – grazie, figuriamoci, ai loro meriti personali – dei benefici di questa situazione e sarebbe sorprendente se andassero a bere a quella fonte. Tutto ciò di cui il progressista chiacchiera nei media riguarda dunque la parità formale dei “cittadini”. Le sue indignazioni, sul tema, sono epiche e in quel campo è imbattibile.

E’ disposto a battersi come un leone per garantire diritti “a ricchi e poveri”.

Non si rende neppure conto che già la pretesa di garantire uguali diritti “a ricchi e poveri” è di per sé un ossimoro perché dà per acquisita l’ingiustizia di fondo: che vi siano, cioè, dei ricchi e dei poveri.

Fino a che il discorso si mantiene sulle cime ideali della filantropia funziona tutto benissimo. Quando, occasionalmente, da quelle cime ideali si deve scendere a valle il silenzio diventa imbarazzante.

Se però lo fai notare sei uno spostato.

In questi giorni si è discusso a tutto spiano degli attacchi a una giornalista di stato strapagata: la B.

Sono celebrazioni rituali che seguono la liturgia cadenzata delle messe domenicali: il praticante ci va alle undici e alle dodici esce con l’anima in pace e un’autonomia di sei giorni per fare quello che cazzo gli pare.

Una conduttrice ugualmente strapagata, la H. , ha detto “la B. è sciatta” e gli indignati di professione hanno risposto con l’anatema di sempre: “Sessismo! Maschilismo!”. Il presbiterio salmodia, l’aula risponde. Dopo tante funzioni domenicali non serve neppure il messale, tutti sanno tutto a memoria: in caso di dimenticanze ci sono Fazio e Gramellini che pestano sull’organo.

Ma se per caso ti permetti di rilevare che quelle due benestanti strapagate giocano esattamente lo stesso gioco, s’incazza pure il sagrestano.

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