Costume

L’influenza delle parole nell’anno della pandemia

13 Marzo 2021

“Le mie scuse erano mille, mille

E nel cuore sento, spille spille

Prova a toglierle tu baby

Tu baby

Chiamami per nome

Solo quando avrò

Perso le parole”

 

Quando per la finale del Festival di Sanremo viene aperto per la prima volta il televoto, Chiara Ferragni, top manager delle impreditrice digitali, lancia l’appello all’esercito di follower dei Ferragnez per sostenere la canzone che Fedez canta insieme a Michielin. Se avessero risposto in massa, la classifica avrebbe potuto modificarsi notevolmente.

Quanto i fatti storico – sociali hanno modificato il corso delle parole, ne hanno mutato il significato?

Viralità è una di queste, fino a poco tempo fa designava un invidiabile privilegio degli influencer.

Sicuramente questo periodo, iniziato poco più di un anno fa, è uno di quelli che non tenderemo a dimenticare facilmente: le nostre vite sono state sconvolte, quelle di molte persone sono state strappate via da un virus di cui ci è stato detto tanto, tutto è apparso surreale come se stessimo vivendo all’interno di un grande film di produzione americana. Lo spazio di libertà è stato ridotto, è stato necessario limitare le nostre uscite, evitare di avvicinarsi agli altri. Il limite è diventato la regola di vita che ci viene imposta, mentre Il virus divenuto l’argomento principe di dibattitti televisivi, dei media in generale, tra amici, ha stravolto quelle che erano le nostre abitudini, l’organizzazione delle nostre giornate, il nostro sistema di vita. Siamo stati in balia di parole che ci hanno investito frastornandoci di concetti, nomi nuovi e strani, dandoci indicazioni contraddittorie, dicendo cose spesso incompatibili tra loro. Persino il nome dei colori non sono più stati un’informazione neutra, oggi siamo tutti in apprensione perché le zone ad essi associati sono indicatore di restrizioni più o meno forti. Parole che dai nostri televisori hanno fatto eco nei cortili, mentre nelle strade si sono sentite passare le sirene; le abbiamo lette nei giornali o negli schermi di computer, tablet, smartphone su cui il sole si rifletteva dalle finestre tenute aperte per annusare un po’ di primavera. Gli occhi stretti, il cuore in gola per una situazione che sembrava senza spiragli: mai come in questo periodo lento, quasi fermo, abbiamo preso coscienza di quanto la nostra vita è immersa nelle parole; parole che il silenzio creato tutt’intorno da quell’irreale stasi, amplificava a dismisura. Parole che dalla dimensione pubblica rimbalzavano in quella privata dei discorsi fatti in famiglia, o al telefono, o in videoconferenza.

Mia nipote a cui ho chiesto, durante il periodo iniziale della pandemia, di esprimere i suoi sentimenti, ha disegnato una folla di emoji accalcati gli uni agli altri in una nuvola in cui spicca il fantasmino dispettoso con tanto di linguaccia, la didascalia spiega: il mio disegno si chiama confusione perché le mie emozioni sono tutte confuse. Poi ha aggiunto:”li ho disegnati in un cloud

Credo che il sentimento di mia nipote sia stato quello che a diverso livello vivevamo tutti a causa del frenetico rincorrersi di annunci, ma ciò che mi ha colpito è il fatto che invece di usare il vocabolo nuvola, abbia usato il suo corrispettivo inglese; rilevavo come l’inglese e l’informatizzazione avesse ormai raggiunto anche il linguaggio dei bambini.

Nella rubrica che Corrado Augias tiene per il quotidiano “La Repubblica”, un lettore si divertiva a immaginare un testo che cominciava così: “Se calerà il trend del covid, il governatore metterà fine al lockdown e farà ritirare la task force mandata dal governo centrale per cercare i kluster del virus Killer”.

In effetti parole di derivazione inglese droplet, smart working, screening, e qualche francesismo triage hanno preso il sopravvento.

Prima di essere impiegata in ambito internazionale per indicare le misure di contenimento legate all’epidemia di Coronavirus, il termine lock down nell’inglese degli Stati Uniti significa l’isolamento dei detenuti nella propria cella come misura temporanea di sicurezza, corrisponde in effetti al carcere duro.

La gravità della situazione suggerisce metafore che rimandano alla peste con i suoi untori e lazzaretti, se all’epoca della prima SARS i giornali inglese avevano insistito soprattutto sull’idea del virus come Killer, si è affermata, col Covid, più di ogni altra, la metafora bellica. Si è parlato di trincea e fronte, di nemico, di eroi, di valori e simboli patriottici come l’inno e la bandiera nazionale per sconfiggere il nemico invisibile.

Gli italiani espongono il tricolore e condividono dalle loro case applausi, canti, suoni, si scambiano saluti dalle finestre, dai balconi, dai ballatoi. La parola ballatoio deriva da bellatorium che era proprio una costruzione fortificata. Le persone sentono di vivere più che una guerra, una forma condivisa di resistenza: Bella ciao diviene uno degli inni intonati poiché più che impugnare le armi, si tratta di assumere comportamenti responsabili per se stessi e la comunità.

Aldo Masullo, scomparso meno di un anno fa, parla di sgomento, di evento catastrofico, ma anche di etica della salvezza e   ha coniato il vocabolo pan-patia per indicare uno stato di sofferenza non individuale ma collettivo, indicando nella capacità e nel coraggio di resistere l’unico strumento che resta a nostra disposizione.

Spesso ci siamo crogiolati nella convinzione che la vera realtà fosse quella virtuale da perdere di vista il senso delle parole perché nel virtuale è tutto astratto, impalpabile, estraneo alla sfera dei sensi. I virus sembravano riguardare il computer mentre la virulenza che temevamo era quella dei discorsi, degli insulti veicolati dalla rete, contagiosi erano gli slogan. Oggi le persone positive ci fanno paura, ci farebbe un diverso effetto persino una canzone come Penso positivo e per la trasmissione non si fanno più complimenti, come cantava Ligabue in Tra palco e realtà, tamponare, infine, non riguarda più l’urto tra automobili. Tante sono le parole che oggi ci fanno temere perché hanno assunto una dimensione concreta, quello che avevamo loro sottratto relegandole a una grande metafora.

Sono vietati gli assembramenti mentre quel sembrare presente nella radice della parola è reso dall’uso obbligatorio di una mascherina che cela parte del volto, rendendoci a volte poco riconoscibili. Il mascara ci aiuta a illuminare lo sguardo spento da una vita confinata tra pareti domestiche, dove insieme alla bellezza degli affetti familiari e al valore dei piccoli gesti, abbiamo imparato ad apprezzare anche quelle libertà negate come l’abbraccio a amici, cose che ci sembravano scontate. La mascherina, simbolo più emblematico di quest’epidemia, è una gabbia da cui non è facile uscire, una griglia che costringe ogni volta la realtà nelle caselle di un immaginario e labirintico cruciverba.

 

La malattia smaschera ogni tentativo di rendere eteree le parole, e non c’è maschera che tenga. Il contagio torna a trovare un senso nel tatto, a trovare pertinenza nel corpo e nei suoi cattivi umori: lacrime, saliva, muco, in quella paura di toccare ed essere toccati che risale al verbo tangere e che ci impone di rimanere distanti.

Se consideriamo il mondo della scuola, per un passato remoto che si usa sempre meno, un accesso da remoto, oggi, si usa sempre di più.  In La strada che porta a domani, Bill Gates affermava che sarebbe arrivato un giorno “e non è molto lontano, in cui potremo concludere affari, studiare, conoscere il mondo e le sue culture, assistere a importanti spettacoli, stringere amicizie, visitare i negozi del quartiere e mostrare fotografie a parenti lontani, tutto senza muoverci dalla scrivania o dalla poltrona.”  Sono passati 25 anni e allora era difficile immaginare che tutto ciò sarebbe successo davvero, il prefisso tele era associato alla televisione, al trionfo elettorale di Berlusconi.

Il telelavoro, la teledidattica, le teleconferenze e i teleaperitivi nei mesi duri della pandemia ci hanno salvato la vita. Eppure fino a poco tempo fa, c ‘era chi si batteva contro l’invadenza omologante del digitale nell’istruzione; che considerava la LIM poco utile, demonizzava l’uso del pc nella didattica, chi ammoniva sul prossimo abbandono dell’insegnamento del corsivo. Oggi, improvvisamente, ci si è resi conto di cosa significa quella ritrosia figlia di un grave ritardo e che abbiamo sottovalutato le potenzialità del digitale. Molti di noi professori temevamo che dinanzi alla possibilità di una lezione a distanza, ci saremmo messi a gridare aiuto come in Sogni d’oro fa Nanni Moretti chiuso in una stanza dinanzi a una televisione accesa, e, invece, abbiamo imparato a condividere materiali didattici di ogni specie: pagine web, video, documenti, a somministrare test, collaborare con gli studenti.

Questo passaggio da una dimensione passiva a una attiva, dal giocare al fare, dal comunicare, all’imparare dovrebbe aiutare a superare due modalità che erroneamente vengono contrapposte: il ludismo e il luddismo, l’odio verso le macchine esploso più di due secoli fa durante la rivoluzione industriale. Ancora oggi, i proseliti di una didattica tradizionale continuano a identificare le nuove tecnologie con la comunicazione giocosa, un passatempo, e perciò una perdita di tempo motivo per cui il digitale andrebbe tenuto fuori dall’istruzione.

È inevitabile che ogni rivoluzione tecnologica metta in crisi un paradigma culturale. Nell’antica Grecia fu osteggiata la scrittura perché stava sostituendo la tradizione orale, mentre nel Rinascimento tanti demonizzarono l’invenzione della stampa, considerata una pericolosa innovazione rispetto la scrittura a mano.

In questo periodo pandemico dove il tempo lavorativo sembra essersi dilatato, ha assunto nuove forme, occupato diversamente segmenti temporali, persino la parola vacanza sembra aver cambiato i suoi connotati. Da sospensione di attività, di un periodo di riposo, è ben lontana dall’odore della libertà che ci assaliva da bambini perché indicava il vuoto di quelle ore in cui non c’era più scuola. Lontana da Vacanze romane, ha rimandato al vuoto delle città, il vuoto delle nostre giornate senza uscire di casa, vacante come di un ufficio privo di titolare dove la presa in carica è quella di un vuoto che è vacuum, quello dell’horror vacui appunto. L’obbligata clausura indica un’assenza, una mancanza di qualcosa, di cose fondamentali come la libertà di muoverci, di poter abbracciare chi ci sta a cuore o, per citare una canzone di Lucio Dalla, “di tutte quelle cose che ci mancano se non le abbiamo più”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0 Commenti

Devi fare login per commentare

Login

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.